la Voce Misena
19 Maggio 2016
9 Giugno 2016
Due passi in città
Alle origini della fede La chiesa di Sant’Angelo, il sarcofago di San Gaudenzio e la chiesa in collina
ITINERARI
Sant’Angelo ha una semplice chiesa che però riserva alcune sorprese artistiche. A due passi si trova la strada di San Gaudenzio dai molti talenti.
Nella chiesa di S. Michele Arcangelo, vi si celebra la santa messa alle ore 11.15 dei giorni festivi, alle ore 19.00 dei giorni prefestivi e dei giorni feriali.
Il presbiterio è introdotto da un arco a tutto sesto poggiante su pilastri nel cui spessore sono ricavate altre due nicchie con statue di Sant’Antonio abate e Sant’Antonio di Padova e termina con parete diritta al cui centro è appesa la pala d’altare: Madonna col Bambino e i santi Silvestro papa e Maurizio, che Claudia Caldari, dirigente dell’Area tutela della Soprintendenza di Urbino, ha confermato essere stato eseguito da Giovanni Baglione, a cui proprio in occasione del restauro è stata attribuita.
Il grande quadro ha trovato posto nel catalogo della mostra “Sotto un’altra luce – Antologia di opere restaurate dal territorio”, la mostra che si è svolta alla Rocca Roveresca e alla Pinacoteca diocesana di Senigallia nel 2013.
La tradizione la descrive come Madonna Regina degli Angeli, in cui la Vergine tiene in braccio il Bambino, mentre, in basso in primo piano sarebbero raffigurati gli Arcangeli Michele in sembianza di guerriero e, dietro di lui, Raffaele e Gabriele, mentre – nell’altro lato – S. Silvestro Papa, S. Pietro Martire e S. Antonio di Padova.
In occasione della presentazione della mostra, Claudia Caldari, ha ricordato come il restauro è sempre anche un’occasione di approfondimento conoscitivo.
Carla Guglielmi Faldi nel Dizionario Biografico degli Italiani, spiega che Giovanni Baglione nacque a Roma intorno al 1573 da Tommaso, fiorentino, e da Tommasa Grampi, romana.
La prima educazione del pittore quindicenne si svolge nell’ambiente favorito dal mecenatismo di Sisto V.
Nel 1589 egli affresca, nel salone della Biblioteca Vaticana: Tarquinio che compra i libri sibillini, la figura allegorica della Pazienza e i due riquadri della Biblioteca di Babilonia, opere strettamente connesse al documentato Ritrovamento di Mosè dello stesso anno alla Scala Santa, nonché ad altre scene nello stesso luogo e nel Palazzo Lateranense.
Nelle Storie di Maria (1598-99) nel coro di S. Maria dell’Orto a Roma, e ancor più nel S. Filippo e nell’Offerta dei vasi d’oro fatta da Costantino a papa Silvestro (1600), nel transetto di S. Giovanni in Laterano, il Baglione tende a superare la cultura manieristica, i cui elementi tuttavia sono ancora evidenti, in senso incertamente naturalistico.
Tale coerenza di percorso cede però alla sconvolgente influenza del Caravaggio e porta il Baglione a un’adesione al Merisi tanto immediata quanto, in realtà, esteriore, vera e propria infatuazione momentanea.
Fatto che tuttavia, nel breve giro di anni da circoscrivere al 1600-1603, porta il Baglione alle sue più felici operazioni di pittura: dai nobilissimi Santi Pietro e Paolo in S. Cecilia in Trastevere (1601), al S. Andrea della stessa chiesa (1603), a quella clamorosa interpretazione che è L’Amor divino che abbatte il terreno, dipinto per il cardinal Giustiniani e noto in tre versioni: agli Staatliche Museen, Berlin Dahlem, in una replica della Galleria Nazionale di Roma (distrutta nella II guerra mondiale presso l’ambasciata d’Italia a Berlino) e in una tela reperita di recente in collezione privata romana. Il Baglione sale a un livello né mai prima né più dopo raggiunto.
Il processo del 1603, in cui Caravaggio fu accusato di diffamazione nei confronti di Giovanni Baglione mise bruscamente fine al loro avvicinamento artistico e il pittore romano tornò sulle orme di uno stanco tardo manierismo.
Venendo alla nostra chiesa di San Michele Arcangelo a Sant’Angelo di Senigallia, risulta che in questa località, originariamente fosse presente un’antica pieve dedicata a San Michele ancor prima del XI secolo. La prima documentazione riguardo alla frazione con questo nome è del 1081.
Nel 1530 il vescovo Vigerio della Rovere rivela che esiste una chiesa realizzata interamente dal popolo con i propri mezzi.
Nel 1595 il vescovo Ridolfi la trova in buono stato, forse già rimaneggiata. Un primo vero restauro avviene tra la fine del Settecento e il 1808.
Lo storico locale Montanari rivela che la chiesa è in buono stato così come la casa parrocchiale. Nel 1854 la chiesa subì un secondo intervento di restauro e di rifacimento della facciata e del campanile. Un terzo importante restauro avviene dopo il terremoto del 1930 e la II guerra mondiale.
Nel corso del 2010 è stato eseguito un intervento di straordinaria manutenzione dell’edificio: la facciata è stata riportata allo stato originale del neoclassicismo ottocentesco. La parte inferiore è ornata dal portale con mostra in pietra sul cui cornicione è inserita la dedicazione della chiesa.
L’interno è ad aula unica, con nicchie parietali dove sono presenti una statua che raffigura la Vergine del Rosario, sulla sinistra e il Crocifisso in legno intagliato del XVII secolo, sulla destra.
Sotto il crocifisso in una nicchia del muro è adagiata la statua di San Pietro Martire da Verona (ultima domenica di Aprile), è il Santo Patrono della comunità, mentre S. Michele Arcangelo (29 Settembre) è il titolare della Chiesa.
Sopra l’ingresso insiste la cantoria in legno, sostenuta da colonne, priva dell’organo. Una pregevole Croce in legno, finemente dorata e intagliata, ascrivibile al XVIII secolo e conservata in sagrestia.
La chiesa cattedrale di Senigallia custodisce il sarcofago di San Gaudenzio, unica testimonianza alto medievale cittadina. Il monastero e la chiesa di San Gaudenzio sorgevano sulla collina detta “monte della gessara” a due passi da Sant’Angelo.
Il Sarcofago di San Gaudenzio, di autore ignoto, risale al secolo VI. Le figure agli spigoli del coperchio rappresentano i simboli degli Evangelisti: sul lato anteriore si trovano l’angelo di San Matteo ed il leone di San Marco; sul lato posteriore, appena identificabile, a sinistra, l’aquila di San Giovanni, a destra il bue di San Luca.
L’iscrizione riferisce che Sigismondo, vescovo di Senigallia, nel 590, collocò le miracolose reliquie del santo nel sarcofago, a custodia del quale – secondo la tradizione – la regina longobarda Teodolinda, fece costruire un tempio di cui restano solo poche vestige nella contrada chiamata tuttora San Gaudenzio.
Le reliquie furono portate nel 1520 ad Ostra, nella chiesa di San Francesco, ove sono tuttora oggetto di devozione popolare. In quell’anno, il capitano Bergamini di Ostra , salvò le reliquie del santo abbandonate tra i ruderi, e per estrarle ruppe una parte del coperchio del sarcofago. Oggi le sue spoglie si trovano custodite nella chiesa di San Francesco nel centro storico di Ostra.
In una ricerca dal titolo “il sarcofago di San Gaudenzio” a cura della classe II A della scuola media Fagnani di Senigallia, nell’anno scolastico 1992-1993, si legge:
“Il sarcofago di San Gaudenzio conservato all’ingresso della sacrestia del Duomo di Senigallia è l’unica testimonianza artistica alto-medievale della città. San Gaudenzio è oggi il patrono della città di Ostra.
L’abbazia di San Gaudenzio a Senigallia fu fondata fra X e XI secolo e ne restano ancora chiare vestigia nella villa edificata sulle sue rovine in via San Gaudenzio 6. La scelta del luogo per edificare l’abbazia non fu disgiunta dall’esistenza di una ricca sorgente d’acqua, che dovette alimentare la città fin dai tempi antichi, come dimostra la presenza di una vasca quadrata in calcestruzzo e tracce di condutture d’età romana.
La notorietà della sorgente è legata soprattutto all’opera del duca Francesco Maria II Della Rovere, che alla fine del 1500 ordinò la costruzione di un acquedotto per rifornire d’acqua le fontane della città, compresa quella edificata in Piazza del Duca.
Nel 1483 l’Abbazia di S. Gaudenzio di cui rimangono delle rovine ed il sarcofago del Santo, al tempo era custodita dagli abati di Santa Maria di Sitria, fu abbandonata e lasciata cadere in rovina.
Sulle sue fondamenta nel 1876 il Cav. Attilio Fedrighini, sindaco della città dal 1889 al 1890, proprietario dell’area e autore della prima attività estrattiva, fece edificare la villa che si vede ancor oggi. Al suo interno e all’esterno sono ancora osservabili vestigia e tracce dell’antica abbazia: colonne e parti dell’antico fabbricato si vedono inglobate anche nelle facciate.
Gli alunni della scuola indicano – la chiesa di San Gudenzio, già cimitero suburbano, come probabilmente la prima Cattedrale di Senigallia.
Nel 1616, il sarcofago ormai vuoto, fu trasportato nella chiesetta di San Sebastiano di Senigallia perché, si diceva, operava esso stesso numerosi miracoli.
Nel 1712 il sarcofago fu collocato nella quarta Cattedrale di Senigallia, nella cappella della Concezione. Poi nel 1790 fu trasportato nel Duomo attuale e nel 1923 nell’Aula Capitolare, infine fu sistemato all’ingresso della sacrestia, dove si trova attualmente”.
Un altro elemento di collegamento della collina di San Gaudenzio con la città, è l’utilizzo della cava di San Gaudenzio come luogo di estrazione di gesso e marna per l’edilizia.
Lo sfruttamento industriale su larga scala iniziò solo nel 1885, quando con la partecipazione del Cav. Attilio Fedrighini, proprietario dell’area, si costituì la Società Italiana Cementi, che avviò l’estrazione e la lavorazione della marna per la produzione del cemento e della calce idraulica.
Seguirono poi altre società e l’ampliamento dell’attività fino alla definitiva chiusura negli anni ‘80 del secolo scorso.
A testimonianza di questa attività resta la cava naturalizzata ed entrata a far parte dell’area protetta e il monumentale edificio della fornace in grave stato di degrado, ma suscettibile ancora di riqualificazione e riutilizzo, unico esempio di archeologia industriale sopravvissuto a Senigallia.
San Gaudenzio di Rimini, nacque nel 280 d.C. ad Efeso, in Asia Minore, da genitori cristiani che furono perseguitati e poi uccisi dai Manichei. Non essendo stato ancora battezzato e desideroso di ricevere questo sacramento, si recò a Roma mentre impazzava la persecuzione di Diocleziano. Riuscì nell’intento facendosi battezzare dal sacerdote Giustino.
A Roma convertì la Matrona Eusitica e conobbe Papa San Marcello che lo avviò al sacerdozio. Divenne sacerdote nel 314, e vescovo nel 341′ – quindi inviato dal papa a Rimini per annunciare il Vangelo, divenne vescovo della città (probabilmente il proto-vescovo), nell’anno 359. Partecipò al Concilio di Rimini indetto per condannare Ario; allorché se ne profilò la vittoria, Gaudenzio, con altri 17 vescovi, abbandonò il concilio e si ritirò in una cittadina vicina che dopo questo evento fu chiamata ‘Cattolica’.
Tornato a Rimini, attaccò le posizioni ariane. Arrestato dal preside nominato dall’imperatore Costanzo, fu strappato dalle mani dei giudici e linciato dai seguaci di Ario, il 14 ottobre del 360.
Durante il suo episcopato ordinò diacono Marino, il santo fondatore della vicina Repubblica. (Avvenire).
Gaudenzio operò molti miracoli mentre era in vita, anche nei dintorni di Senigallia, mentre era in viaggio da Roma a Rimini: presso il fiume Esino guarì un paralitico, trasformò l’acqua putrida di una pozza lungo il fiume Misa in ottimo vino, per ristorare i suoi compagni di viaggio, convertì un giovane di origine Dalmata di nome Marino, che poi si ritirò a vita eremitica sul Monte Titano da cui nacque la Repubblica di San Marino.
A Rimini fu costruito un sepolcro per contenerne i poveri resti, ma fu distrutto durante i numerosi eventi bellici di quel periodo. Nel 590 la regina longobarda Teodolinda, non ritenendo sicure le spoglie del santo a causa delle scorrerie dei Barbari, le fece traslare da Rimini a Senigallia. A Rimini è invece conservata la reliquia del cranio di San Gaudenzio.
Si attribuirono talmente tanti miracoli a San Gaudenzio che per adorarne le reliquie si fondò su una collinetta a 3 km da Senigallia una chiesa a tre navate ed un convento, insediamento che successivamente fu occupato dai monaci benedettini, mentre il vescovo Sigismondo fece riporre le spoglie del santo in un sarcofago di tipo ravennate.
pagina a cura di Mario Maria Molinari