Liberté, égalité, fraternité. Libertà, uguaglianza, fraternità, motto ufficiale della Repubblica Francese (1793-1814; 1848-51; dal 1875 in poi, a parte 1940-44).

La prima parola del motto repubblicano: “Libertà” è così definita nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1793: “[…] La libertà è il potere che appartiene all’uomo di fare tutto ciò che non lede i diritti degli altri… ”; la seconda “Uguaglianza”: “Tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla legge”; la terza “Fraternità”: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te…”

La libertà, o il diritto di vivere liberamente e senza oppressione o restrizioni indebite da parte delle autorità, è un valore fondamentale in una società democratica. Lo stesso vale per l’uguaglianza. Non significa solo trattare gli altri come uguali, ma anche trattare tutti allo stesso modo davanti alla legge.

La fraternità non riguarda le confraternite, anche se il riferimento c’era sicuramente quando il motto fu pronunciato per la prima volta da Massimiliano Robespierre perché la libertà e l’uguaglianza si trovano comunemente nel linguaggio massonico, come, del resto, la fraternità, ma sulle centinaia di nomi delle logge massoniche recensiti nel Settecento, solo nove menzionano quest’ultima.

«Vi sono rischi nell’intendere la solidarietà come un rimedio, e non come un principio. Il primo è quello di chiudersi in comunità autoreferenziali, mentre il passaggio dalla fraternità  alla solidarietà significava mettere la società al posto della comunità». (Stefano Rodotà. Quella virtù dimenticata, 25 settembre 2012)

Tra i repubblicani, osserviamo ancora una certa riluttanza al termine fraternità. Fare della libertà e dell’uguaglianza due nozioni inseparabili, ha le sue origini nel periodo dell’Illuminismo, nel XVIII secolo, in particolare tra filosofi come Rousseau e molti a causa del suo carattere religioso e preferiscono la solidarietà o la filantropia, alla fraternità.

Robespierre nel dicembre 1790, tenne un discorso sull’organizzazione delle guardie nazionali, nel quale propose che sulle bandiere e sulle uniformi degli ufficiali fossero incise le parole “Il popolo francese” e “Libertà, uguaglianza, fraternità”.

La proposta non fu accettata, ma l’espressione ritornò nel 1793, sotto il Terrore. “Unità, indivisibilità della Repubblica, Libertà, Uguaglianza, Fraternità o morte”, questa è la formula radicale che Jean-Nicolas Pache, allora sindaco di Parigi, fece scrivere sulle facciate del Municipio e degli edifici pubblici nel giugno 1793.

«Di questa triade rivoluzionaria proprio la fraternità si rivelò precocemente la componente più debole, tanto che Napoleone, nel suo proclama del 18 brumaio, si sarebbe presentato ai francesi come il difensore di “libertà, eguaglianza, proprietà”.

La fraternità scompare, sopraffatta dal primato della proprietà , diritto a escludere gli altri dal godimento di un bene, dunque destinato a spezzare quel legame tra gli uomini che attraverso la fraternità si era voluto stabilire. Infatti, nel momento in cui la legislazione rivoluzionaria cancellava le appartenenze di ceto, tipiche del regime feudale, alla fraternità  si affidava il compito di costruire la “nazione”.

Questa idea morale si sarebbe sempre più mostrata incapace di reggere da sola il peso delle diseguaglianze, sì che poi si è scelta la strada che affidava all’artificialità del diritto, piuttosto che alla natura, i principi di libertà, eguaglianza, fraternità» (Stefano Rodotà).

«La fraternità, appena enunciata dalla Rivoluzione francese, cade ben presto, essenzialmente per due motivi. Il primo:

la Rivoluzione si trasforma in guerra civile sempre più cruenta; al posto della fraternità si attuano i processi di “fraternizzazione”, con i quali i sanculotti impongono con la violenza il loro controllo sulle altre organizzazioni politiche: il grido “Fraternità o morte”, che inizialmente esprimeva la disponibilità a dare la propria vita per la causa della Rivoluzione diventa, spiega lo storico Alphonse Aulard, la propensione a prendere la vita degli altri: «Sii mio fratello o ti ammazzo».

Il secondo: la Francia rivoluzionaria mantiene in piedi l’economia schiavistica nelle sue colonie; i diritti dell’uomo e del cittadino proclamati a Parigi valgono per i bianchi ma non per i neri e la Grande Rivoluzione entra in contraddizione con se stessa.

La fraternità dunque cade; non perché sia, dei tre principi del trittico, il più fragile, come suggerisce Rodotà, ma perché cade il trittico intero: libertà, uguaglianza e fraternità, avevano assunto significati nuovi proprio attraverso la loro relazione.

Una libertà fraterna non sarebbe mai degenerata nell’arbitrio della legge del più forte; né un’uguaglianza fraterna avrebbe prodotto sistemi sociali simili a carceri». (Antonio Maria Baggio, Fraternità o Solidarietà? Il Ritorno di un dibattito antico, 25 Settembre 2012)

Edgar Morin entrando nel merito e affrontando i contenuti mette i tre valori in relazione tra loro: “Libertà, Uguaglianza, Fraternità” e nota che comportano una contraddizione interna: la libertà da sola nuoce all’uguaglianza, e imporre l’uguaglianza nuoce alla libertà. Solamente il terzo termine della formula permette la dialettica dell’insieme. In queste condizioni, dovendo privilegiare un termine oggi, sarebbe dunque la fraternità.

«Stefano Rodotà affronta l’argomento con un interessante articolo, pubblicato da “Repubblica” (Quella virtù dimenticata, 25 settembre 2012) che espone essenzialmente due tesi.

La prima è che la solidarietà sarebbe da preferire alla fraternità in quanto quest’ultima appare «troppo intrisa di religiosità»; nel corso della storia sarebbe avvenuto un passaggio verso la solidarietà, realizzando così una “laicizzazione” dell’idea di fraternità, alla quale avrebbe dato un fondamentale contributo il “sentire socialista”.

La seconda tesi è appunto la sottolineatura del ruolo del movimento socialista nell’affermazione dell’idea di solidarietà, anche in riferimento all’articolo 2 della Costituzione, dove si menzionano i «doveri inderogabili della solidarietà»: secondo Rodotà non si può attribuire al solo pensiero cattolico la centralità che la solidarietà acquisisce nella nostra Costituzione.

Questo confronto tra fraternità e solidarietà non è nuovo. Il tentativo di sostituire l’idea di fraternità con quella di solidarietà è presente nel dibattito politico francese della seconda metà dell’Ottocento e raggiunge il suo culmine con la teorizzazione del “solidarismo” politico, che ha avuto tra i suoi maggiori rappresentanti Léon Bourgeois, autore, nel 1896, del libro Solidarité.

Bourgeois, che sarà il primo presidente della Società per le nazioni e Premio Nobel per la pace nel 1920, era un esponente del partito radicale, autodefinentesi “socialista liberale”; divenne Presidente del Consiglio nel 1895 e diede vita ad un gabinetto con forte presenza di ministri appartenenti, come lui, al Grande Oriente di Francia.

In generale, lungo l’arco di due-tre decenni, l’idea di solidarietà si impose e venne presentata all’opinione pubblica come vantaggiosa rispetto a quella di fraternità; anzitutto perché poteva assumere, per la mentalità positivista del tempo, una apparenza di scientificità, come interprete dei legami oggettivi di interdipendenza esistenti tra gli uomini nella società, mentre la fraternità veniva inserita in un ambito più soggettivo e affettivo.

Sembrava, inoltre, più facilmente utilizzabile come principio giuridico, mentre la fraternità si faceva valere soprattutto come dovere morale;

infine, ed è l’argomento presentato ancora oggi da Rodotà, la solidarietà permetteva – almeno apparentemente – di conservare i contenuti della fraternità, tagliandone però i suoi legami con la sfera religiosa dalla quale proveniva: sembrava prestarsi meglio, di conseguenza, ad ispirare una azione civile e pubblica, di carattere non confessionale.

L’utilizzo dell’idea di fraternità non è affatto semplice. Nel corso della storia recente essa ha subito diverse interpretazioni distorcenti.

Pensiamo alla fraternità trasformata in ideologia nazionalistica, utilizzata per descrivere una “Nazione di fratelli” che dà vita ad uno Stato aggressivo nei confronti degli altri.

O alla fraternità intesa come legame settario tipico di organizzazioni quali la massoneria.

O alla fraternità come legame di classe, usata per definire un nemico da distruggere.

Tutte interpretazioni, queste, che hanno l’effetto di escludere, di definire un’appartenenza comunitaria di tipo privilegiato o antagonista.

Interpretazioni che negano un elemento essenziale dell’idea di fraternità, indispensabile per dare fondamento ad un orizzonte di democrazia e di pace: quello di essere un legame tendenzialmente universale, che riconosce a tutti gli esseri umani la medesima dignità.

È evidente che la fraternità è un’idea di origine religiosa; e questo vale non solo per la religione cristiana, ebraica, islamica, ma anche per quella degli antichi Egizi, per gli Irochesi, per i Piaroa dell’Orinoco. Dire che la fraternità ha un legame con la religione è dire un’ovvietà.

Perché allora, nonostante queste oggettive difficoltà, la fraternità si impone nuovamente nel dibattito pubblico? E dal 1880 il motto liberté, égalité, fraternité appare in tutti gli edifici pubblici di Francia?

Credo che questo sia dovuto alla ricchezza del suo stesso concetto: la condizione fraterna, nel significato della sua origine famigliare che costituisce la nostra prima esperienza di essa, è una relazione tra pari, tra esseri umani che vengono dagli stessi genitori e che, per questo, vivono in condizione di uguaglianza; e che, contemporaneamente, sono tra loro diversi e questa diversità è riconosciuta e rispettata, per cui vivono in condizione di libertà.

La fraternità è dunque la condizione per la libertà e per l’uguaglianza: il trittico della Rivoluzione francese, liberté, égalité, fraternité, trasferisce questa condizione esistenziale umana dall’ambito della famiglia a quello della società; il trittico rivoluzionario, storicamente, osa l’inosabile, volendo trasformare una condizione di privilegio riservata a pochi in una condizione universale di cittadinanza.

Emergono due caratteristiche fondamentali che qualificano la fraternità politicamente.

La prima, che la differenzia radicalmente dalla solidarietà, è la sua orizzontalità: i fratelli non accettano rapporti di subordinazione ma interpretano se stessi, sempre, come pari, anche se hanno ruoli diversi.

Al contrario la solidarietà, come viene comunemente intesa e praticata, può consentire anche relazioni verticali, di aiuto da parte del forte verso il debole; è chiaro che la solidarietà così intesa può essere usata per mantenere il debole nella sua condizione subordinata, dandogli l’aiuto sufficiente a garantire che egli non si ribelli.

La solidarietà non mette in questione la relazione di potere; la fraternità, al contrario, non può non farlo. Lo stesso uso della solidarietà come “solidarietà orizzontale” appartiene ad una prospettiva recente, ispirata proprio dalla nozione di fraternità.

La seconda caratteristica consiste nel fatto che la relazione fraterna mi fa prendere atto che esiste un altro, diverso da me, che ha strettamente a che fare con me – siamo, insieme, società – e che ha i miei stessi diritti; non dispongo di lui, non posso cambiarlo, devo accettarlo nella sua differenza e nel suo diritto di viverla e di svilupparla.

In questo senso, la fraternità è il fondamentale principio di realtà, quello che stabilisce la verità di fatto senza la quale, come sottolinea Hanna Arendt, non c’è società politica.

Ed è invece proprio ciò che è accaduto nella storia dei due secoli successivi, quando la libertà e l’uguaglianza si sono separate e contrapposte, dando vita a sistemi socio-economici conflittuali.

Non è strano allora che oggi si voglia riprendere la riflessione sulla fraternità: è, in realtà, una riflessione sull’intero trittico, è l’esigenza di riprendere in mano, con diversa consapevolezza ed esperienza, il progetto politico che voleva mettere insieme la libertà e l’uguaglianza attraverso la fraternità.

Che la fraternità abbia questo ruolo di “generatore” degli altri due principi lo si vede lungo tutta la storia del Novecento: quando sono venute a mancare la libertà e l’uguaglianza, i popoli sono sempre ripartiti dalla fraternità.

Basti ascoltare le parole della Resistenza italiana o del Maquis francese, per udire completamente dispiegato il linguaggio della fraternità: è con quello che siamo usciti dalla guerra e dall’oppressione nazifascista.

Viceversa, la fraternità non può agire come principio pubblico senza libertà e uguaglianza: ricadrebbe nelle sue possibili degenerazioni settarie, privatistiche, fondamentaliste.

La fraternità come categoria di pensiero nello spazio pubblico non è, dunque, una facile soluzione ai problemi politici attuali; ma è certamente uno dei luoghi nei quali cercare le soluzioni.

Accantonare la fraternità e la sfida che essa rappresenta significherebbe rinunciare a guardare la complessità del nostro tempo, che ci chiede di uscire dalle eredità ideologiche che ancora ingombrano il campo della democrazia, per riuscire ad essere, insieme, sia liberi che uguali» (Antonio Maria Baggio, Fraternità o Solidarietà? Il Ritorno di un dibattito antico, 25 Settembre 2012).

«Libertà, uguaglianza… che fine ha fatto la fraternità?»

Il trittico «libertà, uguaglianza, fraternità», quasi una sintesi del programma politico della modernità, esprime un’intuizione profonda e sollecita oggi da noi una profonda riflessione: a che punto siamo con la realizzazione di questa grande aspirazione?

Ma, se i primi due principi hanno conosciuto, negli ultimi secoli, forme parziali di attuazione, la fraternità invece, a dispetto delle dichiarazioni formali, sul piano politico è stata pressoché dimenticata.

Attraverso la fraternità, e per essa acquistano significati nuovi e potranno venire sempre più pienamente raggiunte anche la libertà e l’uguaglianza.

La Rivoluzione francese ha annunciato i tre principi, ma certamente non li ha inventati: essi avevano già cominciato il loro faticoso cammino attraverso i secoli, soprattutto a partire dall’annuncio cristiano, che ha illuminato il meglio delle tradizioni antiche dei diversi popoli e il patrimonio della rivelazione ebraica, portando un’autentica rivoluzione: l’umanesimo nuovo, aperto da Cristo, che ha reso l’uomo capace di vivere pienamente questi principi.

Da quell’annuncio, attraverso i secoli, essi vanno rivelando la loro ricchezza nelle opere degli uomini. Molta strada è stata percorsa e spesso, in questo cammino.

Libertà e uguaglianza hanno segnato profondamente la storia politica dei popoli arrivando ad esprimere frutti di civiltà e creando le condizioni per la progressiva espressione della dignità della persona umana.

La libertà e l’uguaglianza sono diventati principi giuridici e vengono quotidianamente applicati come vere e proprie categorie politiche.

Ma l’affermazione esclusiva della libertà, lo sappiamo bene, può trasformarsi nel privilegio del più forte, mentre l’uguaglianza, e la storia lo conferma, può tradursi in collettivismo che massifica. Inoltre, molti popoli in realtà ancora non beneficiano dei contenuti della libertà e dell’uguaglianza…

Come fare allora perché la loro acquisizione porti frutti maturi? Come rimettere in cammino la storia dei nostri Paesi e quella dell’umanità intera, verso quel destino che le è proprio? Noi crediamo che la chiave stia nella fraternità universale, nel darle il giusto posto tra le categorie politiche fondamentali.

Solo l’uno accanto all’altro, i tre principi potranno dare origine ad una politica adeguata alle domande dell’oggi.

Raramente come nel tempo presente, il nostro pianeta è stato ed è attraversato dalla sfiducia, dal timore, dal terrore persino, senza dimenticare le centinaia di attentati che, in questi ultimi anni, hanno crivellato la nostra cronaca quotidiana. Il terrorismo: una calamità grave almeno quanto le decine di guerre che tuttora insanguinano il nostro pianeta!

E quali ne sono le cause? Molteplici. Non si può però non riconoscere che una delle più profonde è lo squilibrio economico e sociale che esiste nel mondo fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Squilibrio che genera risentimento, ostilità, vendetta, favorendo in questo modo il fondamentalismo, che attecchisce più facilmente in un simile terreno.

Ora, se le cose stanno così, perché il terrorismo si allenti e taccia, non è certo una risposta la guerra, occorre cercare le vie del dialogo, vie politiche e diplomatiche. Ma non basta; occorre suscitare nel mondo più solidarietà fra tutti e una più equa comunione dei beni.

Senza contare che ancor più numerosi sono i temi scottanti che interpellano la politica, nella dimensione nazionale come in quella internazionale. Anche nel mondo occidentale lo stesso modello di sviluppo economico è ormai innegabilmente in crisi, crisi che chiede non più solo limitati aggiustamenti, ma un ripensamento globale per superare la recessione in corso.

La marcia inarrestabile della ricerca scientifica non può avvenire senza provvedere a garantire l’integrità e la salute della specie umana e dell’intero ecosistema.

Il riconoscimento della funzione essenziale dei mezzi di comunicazione nel mondo moderno deve trovare regole certe di fronte alle specifiche esigenze di promozione dei valori e di tutela delle persone, dei gruppi, dei popoli.

Un’altra domanda centrale emerge dalla necessità di difendere e valorizzare la ricchezza che viene dalle diverse appartenenze etniche, religiose, culturali, pur nell’orizzonte degli irreversibili processi di globalizzazione in atto.

Queste che appaiono come alcune tra le maggiori sfide poste dall’attualità, reclamano fortemente l’idea e la pratica della fraternità, e, data la vastità del problema, di una fraternità universale.

Quale espressione politica del Movimento dei Focolari, il Movimento politico per l’unità ha come scopo quello di aiutare persone e gruppi impegnati in politica a riscoprire i valori profondi, eterni dell’uomo, a mettere la fraternità a base della loro vita e solo dopo muoversi nell’azione politica.

Ne consegue che l’agire politico da amore interpersonale diventa possibilità di un amore più grande, quello verso la polis. Un amore che, acquisendo la dimensione politica, non perde le proprie caratteristiche: il coinvolgimento di tutta la persona, con l’intelligenza e la volontà di arrivare a tutti, l’intuizione e la fantasia per fare il primo passo, il realismo del mettersi nei panni dell’altro, con la capacità di donarsi senza interessi personali e di aprire strade nuove anche quando i limiti umani e i fallimenti sembrano chiuderle.

Passando ora a considerare la dimensione nazionale della politica, i rapporti tra i grandi orientamenti che nei nostri Paesi si alternano al governo, costatiamo che il vivere la nostra scelta politica come una vocazione d’amore, ci porta a comprendere che anche coloro che hanno fatto una scelta politica diversa dalla nostra, possono essere stati spinti da una analoga vocazione d’amore, e che anch’essi sono parte – nel loro modo – dello stesso disegno, pur presentandosi come avversari.

La fraternità permette di riconoscere il loro compito, di rispettarlo, di aiutarli – anche attraverso una critica costruttiva – ad esservi fedeli, mentre noi siamo fedeli al nostro.

Si dovrebbe vivere la fraternità così bene da arrivare ad amare il partito degli altri come il proprio, sapendo che entrambi non sono nati per caso, ma come risposta ad una esigenza storica presente all’interno della comunità nazionale, e solo soddisfacendo a tutti gli interessi, solo armonizzandoli in un disegno comune, la politica raggiunge il proprio scopo.

La fraternità fa emergere i valori autentici di ciascuno e ricostruisce l’insieme del disegno politico di una nazione.

Lo testimoniano, ad esempio, le iniziative di membri del Movimento dell’Unità volte a creare un rapporto fraterno fra maggioranza e opposizione, sia a livello di Parlamento, sia in alcuni Comuni, iniziative che si sono tradotte in leggi dello Stato o in politiche locali, che hanno unito le città nelle quali si sono realizzate.

Lo testimoniano anche numerose esperienze di accoglienza degli immigrati, che accorrono nei Paesi più industrializzati non solo per motivi economici, ma anche politici.

Una città, una nazione, non perdono, ma guadagnano nell’aprirsi all’altro; si alza la loro statura politica nell’offrire una patria e una cittadinanza a chi l’ha perduta. E l’amore per la propria Patria fa comprendere quello che gli altri hanno per la loro, nella quale, pure, esiste un disegno di amore.

Così colui che, rispondendo alla propria vocazione politica, inizia a vivere la fraternità, si immette in una dimensione universale che lo apre all’umanità intera, e tiene conto delle conseguenze universali delle proprie scelte; si chiede se ciò che sta decidendo, pur rispondendo agli interessi della propria nazione, non porti ad un danno per le altre.

Ogni gesto politico, in questo modo, non solo quello di un governo nazionale, ma anche il più particolare, compiuto nel più piccolo municipio della più lontana provincia, si carica di un significato universale, perché è pienamente uomo, pienamente responsabile, il politico che lo compie.

Amministratori, parlamentari, militanti di partito –, di appartenenze partitiche le più varie, che sentono il dovere di agire assieme al vero titolare della sovranità, il cittadino; cittadini che vogliono fare la loro parte di soggetto politico attivo; studenti e studiosi di politologia che vogliono offrire il loro contributo di competenza e di ricerca; funzionari della Pubblica Amministrazione, coscienti del proprio ruolo specifico.

Ciò che si propone e si testimonia insieme è uno stile di vita che permetta alla politica di raggiungere nel miglior modo il suo fine: il bene comune nell’unità del corpo sociale. Anzi, si vorrebbe proporre a tutti quanti agiscono in politica di formulare quasi un patto di fraternità per il loro Paese, che metta il suo bene al di sopra di ogni interesse parziale, sia esso individuale, di gruppo, di classe o di partito.

Perché la fraternità offre possibilità sorprendenti: essa consente di tenere insieme e valorizzare esigenze che rischiano, altrimenti, di svilupparsi in conflitti insanabili. Armonizza, ad esempio, le esperienze delle autonomie locali con il senso della storia comune; consolida la coscienza dell’importanza degli organismi internazionali e di tutti quei processi che tendono a superare le barriere e realizzano importanti tappe verso l’unità della famiglia umana. È la fraternità, infatti, che può far fiorire progetti e azioni nel complesso tessuto politico, economico, culturale e sociale del nostro mondo.

È la fraternità che fa uscire dall’isolamento e può aprire la porta dello sviluppo ai popoli che ne sono ancora esclusi. È la fraternità che indica come risolvere pacificamente i dissidi e che può relegare la guerra ai libri di storia. È per la fraternità vissuta che si può sognare e persino sperare in una qualche comunione dei beni fra Paesi ricchi e poveri.

Il profondo bisogno di pace che l’umanità oggi esprime, dice che la fraternità non è solo un valore, non è solo un metodo, ma il paradigma globale di sviluppo politico. Ecco perché un mondo che difatti è sempre più interdipendente ha bisogno di politici, di imprenditori, di intellettuali, di artisti che pongano la fraternità – strumento di unità – al centro del loro agire e del loro pensare.

Era il sogno di Martin Luther King che la fraternità diventasse l’ordine del giorno di un uomo d’affari e la parola d’ordine dell’uomo di governo. I politici del Movimento politico per l’unità vogliono fare di questo sogno una realtà.

Ma questo può essere solo se nell’attività politica non si dimentica la dimensione spirituale, o, comunque, la fede nei valori profondi che devono regolare la vita sociale.

Un giorno mi sembrò di comprendere cosa volesse dire la politica come amore. Se dessimo un colore ad ogni attività umana, all’economia, alla sanità, alla comunicazione, all’arte, al lavoro culturale, alla amministrazione della giustizia… la politica non avrebbe un colore, sarebbe lo sfondo, il nero, che fa risaltare tutti gli altri colori.

Per questo la politica deve ricercare un rapporto continuo con ogni altro ambito di vita, per porre in questo modo le condizioni affinché la società stessa, con tutte le sue espressioni, possa realizzare fino in fondo il suo disegno.

È chiaro che in questa continua attenzione al dialogo, la politica ha il dovere di riservare a sé alcuni specifici spazi: dare le priorità in un programma equo, fare degli ultimi i soggetti privilegiati, ricercare sempre e comunque la partecipazione, che vuol dire dialogo, mediazione, responsabilità e concretezza.

Per i politici di cui parlo, la scelta dell’impegno politico è un atto di amore, con il quale ognuno risponde ad un’autentica vocazione, ad una chiamata personale.

Chi è credente avverte che è Dio stesso a chiamarlo, attraverso le circostanze; il non credente risponde ad una domanda umana, ad un bisogno sociale, ad un problema della sua città, alle sofferenze del suo popolo, che trovano eco nella sua coscienza: ma è sempre l’amore che entrambi immettono nella loro azione.

I politici dell’unità prendendo coscienza che la politica è, nella sua radice, amore, comprendono che anche gli altri, che a volte sono chiamati avversari politici, possono avere compiuto la propria scelta per amore.

Essi prendono coscienza che ogni formazione politica, che ogni opzione politica, possono essere la risposta ad un bisogno sociale e quindi è necessaria alla composizione del bene comune. Quindi si interessano al destino dell’altro e all’istanza che porta, come alla loro, e la critica si fa costruttiva.

Si cerca di praticare l’apparente paradosso di amare il partito altrui come il proprio, perché il bene del Paese ha bisogno dell’opera di tutti.

Questa – mi pare – la politica che vale la pena di essere vissuta, una politica capace di riconoscere e servire il disegno della propria comunità, della propria città e nazione, fino all’umanità intera, perché la fraternità è il disegno di Dio sull’intera famiglia umana.

È questa la vera politica autorevole di cui ogni Paese ha bisogno; il potere, infatti, conferisce la forza, ma è l’amore che dà autorità.

È questa la politica che costruisce opere che rimarranno. Le generazioni che verranno non saranno grate ai politici per avere detenuto il potere, ma per come lo avranno gestito. se pensiamo che il grande progetto politico della modernità prevedeva, come sintetizza il motto della rivoluzione francese, “libertà, uguaglianza, fraternità”.

Ma se i primi due principi hanno conosciuto forme parziali di attuazione, la fraternità invece, a dispetto delle dichiarazioni formali, sul piano politico è stata “pressoché dimenticata.

Di fraternità, in effetti, nel mondo politico, sia a livello dell’azione, sia nell’ambito della riflessione accademica, in quel tempo non si poteva parlare senza essere fraintesi o derisi.

E questo era ed è un segno della crisi profonda che la politica, teorica e pratica, sta attraversando, quando si riduce ad in-seguire le inclinazioni dell’elettorato piuttosto che proporre programmi seri e lungimiranti;

oppure quando trasforma i problemi politici in questioni di polizia e di ordine pubblico;

o quando preferisce affidarsi alle armi piuttosto che affrontare le cause vere dell’ingiustizia interna e internazionale;

o facendosi esecutrice passiva di interessi economici talmente grandi da sfuggire ad ogni controllo.

In ognuno di questi casi, la politica tradisce se stessa e si riduce a qualche cosa d’altro, perché non sa più che cosa essa è.

È Aristotele ad iniziare tale ricca e composita tradizione, definendo la relazione tra i cittadini come una relazione di amicizia basata sull’utile, quando l’utile è il bene di tutti’.

Nella nozione aristotelica di bene comune, esso non è costituito soltanto dalla disponibilità di beni materiali comuni, di infrastrutture, di istituzioni: esso è caratterizzato dalla comune volontà di costruire le condizioni della vita felice, che è tale perché razionale e buona (Aristotele, Etica nicomachea, IX, 6, 1167a, a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1996).

L’amicizia politica è dunque una relazione che richiede le virtù civili, la capacità da parte di ciascuno di posporre il proprio interesse privato, per conseguire un bene che solo insieme agli altri può essere raggiunto.

Egli fornisce anche altre definizioni di politica’, ma le definizioni di tipo relazionale, alle quali egli dà inizio, sono genetico-descrittive, mostrano cioè su quali basi antropologiche si formi la società politica.

Questa tradizione ha fornito strumenti interpretativi essenziali lungo la storia del pensiero politico.

La dimensione relazionale è determinante, ad esempio, nella filosofia politica di Agostino. Come è noto, egli descrive la vita di due città, caratterizzate dal fatto che la relazione tra i cittadini dell’una è molto differente dalla relazione tra i cittadini dell’altra.

Esistono cioè due forme di cittadinanza radicalmente diverse; la cittadinanza della città divina, dove i cittadini sono uniti dall’amore sociale e agapico, dalla volontà di bene gli uni per gli altri; e la cittadinanza della città terrena, caratterizzata dall’amor proprio e privato’.

Lungo la storia le due città sono mescolate fra loro ed è difficile distinguerle; nello stesso parlamento possiamo incontra-re entrambi i tipi di cittadini: quelli che hanno l’amore agapico-sociale e per questo costruiscono il bene comune, e quelli che hanno l’amor proprio, cioè privato, e, attraverso la politica, lavorano per se stessi’.

Ma solo l’amore sociale è in grado, secondo Agostino, di costituire la vera cittadinanza (cit. Sant’Agostino, La città di Dio, XIV, 7, 2; in La città di Dio, II (Libro XI-XVIII), Sant’Agostino, La Genesi alla lettera (De Genesi ad litteram).

La relazione basata sugli interessi privati non è politica; senza amore non c’è una vera città, non c’è polis, non c’è politica.

Passando all’età moderna, la società politica è costruita, secondo Thomas Hobbes, attraverso un contratto nel quale ciascun uomo rinuncia a tutti i propri diritti, per dare vita ad una istituzione politica in cui il potere è assoluto — il Leviatano — proprio per proteggere ciascuno dall’aggressività degli altri.

È l’aggressività di ciascuno nei confronti di tutti a caratterizzare, per Hobbes, l’essenziale relazionalità umana; che sia causata da brama di guadagno, dalla ricerca della sicurezza personale o da quella della gloria, l’esito è in ogni caso distruttivo e genera un’insicurezza e paura permanenti per la propria vita; l’istituzione che ne deriva ne è lo specchio: gli esseri umani vi sono sudditi, non cittadini'(T. Hobbes, Leviathan, I, XIII; ín Leviathan, with selected variants from the Latin edition).

Al contrario, John Locke assume a base del contratto che dà vita alla società politica una diversa visione antropologica. Certamente, in Locke vi sono anche altre motivazioni che richiedono di costituire una società politica, in particolare l’elemento della difesa della proprietà. Ma già prima di unirsi politicamente gli esseri umani sono legati in società e riconoscono un obbligo di amore reciproco’.

Locke coglie questa visione sociale della natura umana dalla Bibbia, della quale è lettore appassionato e, in particolare, dalla riflessione del grande teologo anglicano Richard Hooker, che considerava l’amore reciproco non solo come un comandamento evangelico, ma come un dovere che gli esseri umani comprendono sulla base dell’intelligenza naturale’.

Per questo, secondo Locke, gli esseri umani vivono già socialmente prima di stabilire il contratto politico. Il governo che scaturisce da tale impostazione antropologica dev’essere basato sulle leggi e sul consenso; è in effetti il progenitore del moderno Stato di diritto (J. Locke, The Second Treatise of Government).

Vediamo dunque che concentrarsi sulla dimensione antropologica e relazionale della cittadinanza, e fare ricorso anche al vocabolario della socialità e dell’amore, o ai loro contrari, non è affatto improprio, ma si inserisce in una tradizione rilevante nella storia del pensiero politico.

Che questo popolo e in particolare i suoi rappresentanti, ricchi della loro nobile storia di democrazia, trovino nella fraternità il vigore necessario per continuare con efficacia ancora maggiore il loro cammino e per dare un apporto da protagonisti nella storia di unità della famiglia umana.

Perché la fraternità offre possibilità sorprendenti.

Essa consente, ad esempio, di comprendere e far proprio anche il punto di vista dell’altro, così che nessun interesse, nessuna esigenza rimangano estranei. Ricostruisce il tessuto sociale e, per essa, acquistano nuovi significati anche la libertà e l’uguaglianza, con tutti gli orientamenti politici e le scelte che da essi discendono.

La fraternità consente di tenere insieme e valorizzare esperienze umane che rischiano, altrimenti, di svilupparsi in conflitti insanabili come le ferite ancora aperte della questione meridionale e le nuove legittime esigenze del Nord.

La fraternità armonizza le esperienze delle rinate autonomie locali, dei governi cittadini che tanto contribuiscono alla maturazione della democrazia, con un senso di piena appartenenza alla Patria.

La fraternità illumina la crescente coscienza di essere europei in un’Europa che – per sto- ria e cultura – va dall’Atlantico agli Urali.

Consolida la coscienza dell’importanza degli organismi internazionali e di tutti quei pro- cessi che tendono a superare le barriere e realizzano importanti tappe verso l’unità della famiglia umana.

La fraternità è un impegno che: favorisce lo sviluppo autenticamente umano del Paese senza isolare nell’incertezza del futuro le categorie più deboli, senza escluderne altre dal benessere, senza creare nuove povertà;

salvaguarda i diritti della cittadinanza e l’accesso alla cittadinanza stessa, aprendo una speranza a quanti cercano la possibilità di una vita degna nel nostro Paese, il quale può mostrare la propria grandezza nell’offrirsi come patria per chi l’ha perduta;

aiuta la ricerca scientifica e l’invenzione di nuove tecnologie, salvaguardando, insieme, la dignità della persona umana dal primo all’ultimo istante della sua vita, fornendo sempre le condizioni perché ogni persona possa realizzare la propria libertà di scelta e possa crescere nell’assunzione di responsabilità.

La fraternità – così ci sembra – consentirebbe inoltre di immettere nuovi principi nel lavoro politico quotidiano: farebbe in modo che non si governi mai contro qualcuno o essendo l’espressione solo di una parte del Paese.

C’è chi ha compiti al governo e chi all’opposizione, che solo insieme garantiscono la sovranità dei cittadini.

La fratellanza ancora permetterebbe che si viva pienamente il rapporto tra l’eletto, fin da quando è candidato, e i cittadini del proprio territorio: luogo privilegiato di un dialogo che fa scaturire i programmi dalla collaborazione tra società civile e politica.

Il candidato manterrebbe così più facilmente gli impegni presi e renderebbe conto del proprio operato; e i cittadini lo accompagnerebbero nel suo lavoro con un’azione di sostegno lungo tutto il mandato.

In questo modo, sarebbe superata la separazione tra società e politica, e l’eletto non si troverebbe mai solo, ma espressione di una comunità nella quale rimane profondamente radicato; comunità che, attraverso l’elezione del proprio rappresentante, si apre alla dimensione della nazione.

Così per la fraternità che dona pace, serenità, i partiti troverebbero più facile rinnovarsi, ma, pur rinnovandosi, riscoprirebbero la grandezza del loro compito, poiché nessuno di essi è nato per caso, ma da un’esigenza storica, da un bisogno condiviso di affermare un valore; e sarebbero spinti a mettere in luce la propria ispirazione originale e i propri valori fondanti.

Nello stesso tempo, ogni partito riconoscerebbe i valori e i compiti degli altri partiti stimolandoli, anche attraverso una critica, carica di stima e d’amore, ad esprimere la loro vera identità e a svolgere l’azione che il bene comune attende da loro (CHIARA LUBICH: CHE FINE HA FATTO LA FRATERNITÀ?).

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