‘I nuovi movimenti come forma rituale’ a cura di Marino Livolsi
2.1 In cerca di una nuova democrazia
La storia e l’evoluzione del movimento che col tempo si è affermato col nome di “girotondi” si possono comprendere meglio se si allarga per un momento la prospettiva da cui li si osserva e si considerano le condizioni sociali, politiche e culturali in cui il movimento nasce, cresce e raggiunge una (provvisoria) definizione.
Il rapporto tra sistema politico e cittadinanza in Italia attraversa una stagnazione che, pur avendo assunto caratteri diversi nel tempo, si può far risalire agli anni Ottanta. La crisi dei partiti e del sistema politico nel suo complesso comporta, da un lato, il calo della partecipazione dei cittadini, dall’altro, l’apertura di opportunità politiche che vengono colte da una nuova famiglia di movimenti.
Questa crisi politica e organizzativa dei partiti si scontra non tanto con l’apatia e l’indifferenza, quanto con la frustrazione dovuta al fatto che il sistema non è sufficientemente aperto alle esigenze dei cittadini.
Si determina così quella “schizofrenia partecipativa” (Millefiorini, 2002: 95) per cui gli italiani partecipano sempre meno alla vita politica pur dichiarando di volere influire di più sulle decisioni prese da chi li governa.
I cittadini dunque si allontanano dalla politica perché non la percepiscono come aperta alle loro esigenze e al loro contributo. Emerge una “domanda di nuovo” (Livolsi e Volli, 2003) che di elezione in elezione favorisce leader e formazioni politiche che si presentano come “diversi” e, appunto, “nuovi”, ma che poi faticano a interpretare questo ruolo in modo soddisfacente e non riescono a confermare i loro successi alla tornata successiva.
Con il risultato di accrescere ulteriormente la frattura fra “società civile” e “società politica”. Questo mancato incontro tra domanda e offerta di rappresentanza e parte-cipazione, che finisce col deprimere il desiderio di partecipazione dei cittadini e col determinare una crisi cronica di legittimità dell’intero sistema politico, (pag.44) apre una serie di opportunità per i movimenti sociali, che a partire dalla fine degli anni Ottanta raccolgono istanze diverse, spesso settoriali o localistiche, ma accomunate dal desiderio di nuove forme di partecipazione e coinvolgimento: dalla Lega Nord alla Rete, dal “popolo dei fax” alla rivolta antimafia dei “lenzuoli bianchi” a Palermo, alla mobilitazione in difesa dei giudici del pool di “Mani Pulite” (Della Porta, 1996).
«La società civile è quell’insieme di stili di vita, di regole e di istituzioni che fa sì che la natura ambivalente dell’essere umano, la sua “insocievole socievolezza, possa essere orientata al bene comune. L’insieme dei corpi sociali intermedi di cui parla la Costituzione italiana: famiglia, associazionismo, terzo settore.
I corpi intermedi della società civile – come sono indicati all’art.2 della nostra carta costituzionale – sono considerati dagli studiosi di economia politica (a differenza degli studiosi di economia civile) tanto importanti per il progresso culturale e morale del Paese, quanto irrilevanti per il suo successo economico.
La società civile non può essere riduttivamente identificata con l’esistenza di una pluralità di istituzioni capaci di controbilanciare la forza dello Stato. Ciò è necessario, ma non sufficiente.
Nelle nostre realtà odierne, la società civile o trova il modo di esprimersi a livello della sfera delle relazioni economiche, proponendosi come forza autonoma e indipendente, oppure rischia di diventare poco più che una espressione letteraria, una sorta di wishful thinking.
La “nuova” società civile di cui l’Italia ha urgente bisogno per raccogliere la sfida della post-modernità non può non includere una vitale economia civile.
Nei Paesi dove è debole la società civile, i cittadini perseguono e tutelano i propri interessi “proteggendosi” dalle istituzioni (non pago le tasse perché così mi arricchisco più in fretta; pratico il free-riding perché risparmio risorse o energie, e così via); in quei Paesi dove invece essa è robusta, i cittadini realizzano i propri interessi operando all’interno e per mezzo delle istituzioni» (Parole di Economia Civile: Società Civile di Stefano Zamagni).
Attenuatasi la significatività della distinzione politica classica tra destra e sinistra, questi movimenti tendono invece a proporre e articolare un nuovo tipo di cleavage, più pre-politico che politico, che contrappone “onesti e disonesti”, “puliti e corrotti”, spesso anche “cittadini è professionisti della politica”, con il contributo decisivo dei media, che “scendono in campo”‘ (l’espressione è di Mancini e Mazzoleni, 1995) per riempire il vuoto di legittimità lasciato dai partiti.
La fase di conflitto, politico ma anche rituale, che si apri con la stagione di Tangentopoli non si è dunque conclusa con una ricostruzione del sacro e della religione civile nazionale, ma con uno stato di sospensione che, una volta delegittimata la vecchia classe dirigente (Giglioli et al., 1997), non risolse la crisi, ma la normalizzò attraverso la “rappresentazione del nuovo” (Navarini, 2001: 125), ossia con «il semplice riconoscimento della necessità di produrre una classe politica che avesse poco o nulla a che fare con quella che aveva governato sino al 1992» (ibidem).
Anziché costituire la base per una nuova fondazione della religione civile italiana, il dramma rituale di Tangentopoli si concluse con la vittoria elettorale di forze politiche che avevano saputo inter-pretare simbolicamente il bisogno di “nuovo” nell’elettorato, come Forza Italia e la Lega (Livolsi e Volli, 1995).
La categoria del “nuovo” si associa dunque al richiamo a valori che dovrebbero essere fondativi della vita politica, e non oggetto di scontro tra fazioni. Come scrive Navarini, infatti, «l’onestà è un valore sociale ed è sicura-mente una delle condizioni sine qua non dell’esistenza della società. L’onestà è un valore che viene prima, e va ben oltre, la politica. È quindi una condizione certamente necessaria, ma non sufficiente per fare politica» (2001: 123).
I tanti esperimenti politici e di movimento che, a destra come a sinistra, cercano di declinare e di dare rappresentanza a valori come l’onestà, il senso civico, il “buon senso”, finiscono quasi sempre con l’avere vita breve ed esaurirsi nel ro di un paio di tornate elettorali o di stagioni di mobilitazione sociale, ma contribuiscono a rendere il populismo un carattere permanente e trasversale della politica italiana (Tarchi, 2003).
Alla crisi della rappresentanza tradizionale il populismo può dare risposte politiche di volta in volta diverse: «a seconda delle circostanze, può alimentare la tentazione semplificatrice dell’affidamento di ogni responsabilità di conduzione della collettività a un (pag.45) “uomo forte” oppure stimolare la ricerca di strumenti di controllo dal basso dell’azione di governo… più che respingere il principio di rappresentanza, i populisti puntano a modificarne la natura», tanto da sfociare talvolta «in un rischio di iperdemocraticismo» (Tarchi, 2003: 31-2).
Molte ricerche indicano nei “nuovi ceti medi” il soggetto maggiormente coinvolto nella partecipazione politica e nei movimenti sociali a partire dagli anni Settanta, quando le trasformazioni economiche nelle democrazie occidentali spostano il peso delle attività produttive dall’industria ai servizi, riducendo i ranghi della classe operaia e facendo emergere un nuovo ceto medio intellettuale.
Il conflitto sociale si trasferisce così dalle divisioni economiche e di classe a distinzioni basate soprattutto sui valori e sull’interpretazione del ruolo dello Stato (Della Porta e Diani, 1997; Inglehart, 1998; Millefiorini, 2002).
La stessa partecipazione politica tende a mutare, diventando un’attività intermittente e interstiziale anziché un’esperienza totalizzante (Sani, 1994; Livolsi e Volli, 2003). Se in passato l’identificazione partitica era una delle componenti fondamentali dell’identità di molte persone, oggi sono gli stili di vita (molteplici, differenziati, contingenti) a farsi politica attraverso quella che Anthony Giddens definisce “lifestyle politics” (Giddens, 1991; Bennett, 1998; Beck, Giddens, Lasch, 1999).(2 Una definizione di cui troveremo gli echi nell’idea di “politica bricolage” teorizzata da alcuni leader del movimento dei girotondi).
La definizione di “nuovi ceti medi” è tuttavia troppo ampia e non consente di fotografare adeguatamente le diverse articolazioni di questi soggetti sociali e le loro modalità partecipative, nonché la particolarità della storia economica, politica e sociale del nostro paese.
Storicamente infatti le divisioni di classe non si sono riflesse in modo diretto sulle scelte di voto degli italiani. Molto più influenti risultavano le appartenenze subculturali, sia ideologiche sia religiose.
Dal Dopoguerra alla fine degli anni Ottanta, i ceti medi (ma anche la classe operaia) tendevano infatti a distribuire il loro voto in modo equilibrato tra Dc e Pci, mentre le differenze si registravano soprattutto a livello territoriale, tra “regioni rosse” e “regioni bianche”, a seguito delle influenze subculturali e delle solidarietà locali (Diamanti e Mannheimer, 2002).
Una volta allentate queste appartenenze ideologiche, il ceto medio italiano ha modificato i propri comportamenti di voto, rivelando la frattura, sociale ed economica, che lo attraversa.
I partiti del centrodestra sono tuttavia riusciti a intercettare questo cambiamento e a dargli rappresentanza in modo più convincente di quanto non siano riuscite a fare le formazioni politiche del centro-sinistra.
Da un lato si collocano i piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi, il cosiddetto “popolo delle partite Iva”, generalmente caratterizzati da un livello di istruzione medio-basso. Mossi principalmente da desideri quali la riduzione (pag. 46) dell’intervento pubblico sull’economia, l’alleggerimento della pressione fiscale, la deregolamentazione e la riduzione della burocrazia, questi soggetti hanno trovato un’offerta politica che, prima con la Lega Nord, poi con Forza Italia, ha consentito di dare rappresentanza istituzionale, ma anche forme di partecipazione e rituali collettivi, a queste espressioni che erano emerse sotto forma di movimenti tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, in particolare attraverso l’incarnazione nel proprio leader del “mito dell’imprenditore” e dell'”uomo comune” e nell’adozione di stili linguistici manageriali e aziendalisti (Diamanti, 1993; Poli, 2001; Navarini, 2001).
D’altro lato si trova un ceto medio di natura prevalentemente intellettuale, costituito principalmente da lavoratori dipendenti, spesso con mansioni intellettuali (impiegati, insegnanti, dirigenti), con titolo di istruzione superiore.
Sul piano elettorale questi gruppi sociali si sono orientati verso i partiti del centro-sinistra (Diamanti e Mannheimer, 2002), ma con minore convinzione degli elettori del ceto medio autonomo, in quanto il centrosinistra non ha saputo articolare in modo altrettanto convincente i valori di fondo e le richieste politiche del ceto medio dipendente e a maggiore tasso intellettuale.
Le preoccupazioni principali di questi gruppi riguardano il declino del welfare state e la degradazione della vita civile, del senso di legalità, della sfera pubblica.
La difficoltà del centrosinistra italiano nel coniugare la modernizzazione dello Stato con la difesa delle sue prerogative sociali fondamentali, magari condensandole in una serie di temi politici di forte risonanza anche simbolica e in una comunicazione a forte contenuto valoriale, spiegano in parte l’emergere, tra questi gruppi sociali, di movimenti scontenti della rappresentanza offerta a sinistra.
Un’altra esigenza avvertita particolarmente da questo blocco sociale ed elettorale è la riorganizzazione dello Stato e del sistema politico in senso più partecipativo e inclusivo rispetto alla cittadinanza, ampliando ma anche superando il modello di democrazia rappresentativa che ha caratterizzato la storia della Repubblica fino a oggi.
Anche in questo caso la risposta degli attori politici è stata debole e insoddisfacente e il cambiamento istituzionale di cui si erano create le premesse con Tangentopoli, i referendum e la dissoluzione del sistema dei partiti della prima Repubblica è stato più retorico e formale che sostanziale (Pasquino, 2000).
Le forme organizzative dei partiti di centrosinistra faticano ad adeguarsi alle nuove modalità della partecipazione civile, che abbiamo visto essere intermittente, interstiziale e non legata a vincoli di appartenenza.
L’organizzazione della vita politica e la selezione delle classi dirigenti all’interno dei partiti rimangono invece ancora legate al modello tradizionale dei partiti di massa, basato sulla figura sempre meno diffusa del “militante a tempo pieno”, mentre i processi di professionalizzazione (Mancini, 2001; Mellone e Di Gregorio, 2004) e mediatizzazione (Mazzoleni, 2004; Manin, 1997) (pag..47) della politica rischiano di fare apparire la vita pubblica come un gioco tra specialisti in cui gli unici ruoli che il cittadino può ricoprire sono quelli di comparsa e/o di spettatore passivo (Livolsi e Volli, 2003; Blumler e Gurevitch, 1995; Putnam, 2000; Pharr e Putnam, 2000).
I partiti hanno di fatto scelto di passare da una mobilitazione capillare attuata attraverso il volontariato locale a una comunicazione di massa che utilizza le tecniche del marketing e richiede quindi soprattutto risorse economiche più che partecipazione attiva di cittadini e iscritti (ma vedi Norris, 2000).
Si tratta, come si è visto, di tematiche fortemente trasversali, che negli ultimi anni hanno interessato soprattutto l’area politica di centrosinistra, ma che affiorano di tanto in tanto anche all’interno del centrodestra, che fatica a rappresentare quella parte della borghesia medio-alta che si riconosce nei valori della tradizione liberale e si mantiene anch’essa critica verso la mediatizzazione della politica, il restringimento della sfera pubblica e il declino della partecipazione civile.
L’emersione del movimento dei girotondi si può allora interpretare non solo e non tanto come un fenomeno politico e sociale a sé stante, ma anche come un passaggio nel percorso ancora incompiuto che è iniziato nei primi anni Novanta.
Le domande di trasformazione espresse in quella fase dai “nuovi ceti medi” non hanno trovato risposta né rappresentanza da parte del sistema politico, soprattutto per quanto riguarda le classi medie intellettuali e dipendenti.
Non sono cresciute, anzi probabilmente si sono ristrette, le opportunità politiche di partecipazione concreta e rappresentanza dei cittadini al di fuori dei partiti. Non è stata data, sul piano politico, una risposta convincente al problema della crisi dello stato sociale che tenesse fermi principi e diritti ritenuti fondamentali, prima fra tutte la riduzione delle disuguaglianze sociali.
Non si sono trovate, sul piano simbolico e comunicativo, una leadership e una linea programmatica chiare, che facessero leva su un insieme di valori condivisi per impostare il dialogo tra politica e cittadinanza.
Infine, non si è risolto, anzi si è aggravato, il problema del pluralismo e della qualità dell’informazione e del dibattito politico attraverso i mass media.
Le ragioni e i contenuti del movimento dei girotondi si possono dunque ri-condurre a uno scenario ben più vasto e carico di significato di quello che ne segna simbolicamente e mediaticamente la nascita.
Le manifestazioni che portano alla ribalta il movimento hanno motivazioni e obiettivi politici contingenti, ma soprattutto segnalano il tentativo — l’ennesimo — di dare una risposta nuova a un’esigenza di cambiamento, di spezzare quell’atmosfera surreale di “distacco in attesa” tra politica e cittadinanza che si trascina ormai da più di un decennio (Livolsi e Volli, 2003).
L’ipotesi possibile è che un’attesa latente per un cambiamento possibile possa realizzarsi sulla base di un movimento collettivo che indichi la via per (pag. 48) una soluzione possibile, che dia una risposta chiara e convincente alle aspettative attualmente prive di contenuti.
Ma tutto ciò potrebbe realizzarsi e diventare fenomeno sociale (e conseguente svolta a livello culturale e politico) solo nel caso in cui “qualcuno” — un partito, un politico, i media — riuscisse a proporre parole d’ordine chiare ed efficaci capaci di suggerire il “come” della svolta, indicando un modo nuovo e diverso di partecipare al sociale e di vivere la politica e, conseguentemente, prospettando soluzioni per nuovi obiettivi, valori e modalità di funzionamento delle istituzioni. Fenomeno socialmente assolutamente non impossibile anche se può sembrare inutile dire che, al mo-mento, nessuno riesce ad indicare il nuovo e il possibile (Livolsi e Volli, 2003: 21).
Il percorso sociale e storico dei girotondi
di Cristian Vaccari e Silvia Ladogana