Il profilo storico-politico della Mafia in un denso e originale breve saggio di Eric J. Hobsbawm. È il capitolo terzo del volume «I ribelli» la cui prima edizione inglese risale al 1959.

La Mafia

[…] Per l’ultima volta nel 1866 essa si ribellò con le armi contro le autorità. La grande rivolta contadina del 1894 – i fasci siciliani – la trovò dalla parte della reazione o, nella migliore delle ipotesi, in posizione di neutralità.

Del resto tali rivolte erano organizzate da capi di nuovo genere – i socialisti del luogo – legati a nuove forme di organizzazione, i fasci o le associazioni di mutua difesa, indipendenti dai picciotti.

Cominciò così’ a determinarsi quel rapporto, tipicamente moderno, di proporzionalità inversa tra forza della Mafia e attività rivoluzionaria.

[…] Sono note le associazioni di tipo mafioso che mettono la loro influenza a servizio del miglior offerente – e cioè prevalentemente al servizio degli interessi degli agrari ed affaristi del luogo e dei partiti governativi.

Come abbiamo visto, nel processo evolutivo della Mafia domina una tendenza nettamente opposta al movimento sociale, indirizzata, nell’ipotesi più benevola, verso il gruppo di pressione politica e, nell’ipotesi peggiore, verso il sistema criminale di estorsione organizzata.

[…] essa tende a stabilità sociale poiché, nella propria incoerenza organizzativa ed ideologica, è di solito incapace di esprimere un apparato di forza fisica che non sia allo stesso tempo uno strumento di criminalità e di privato arricchimento.

In altre parole tende inevitabilmente ad agire a mezzo di gangster che accampano una ipoteca sulla proprietà privata, come i pirati sul libero commercio di cui sono parassiti.

Eric J. Hobsbawm

I ribelli

Forme primitive di rivolta sociale

2002

Piccola Biblioteca Einaudi Ns

pp. XI – 264

ISBN 9788806163051

Traduzione di Betty Foà

Capitolo terzo

La Mafia

I.

Fra il banditismo sociale, di cui al capitolo precedente, e i movimenti che esamineremo in questo capitolo, dei quali la Mafia siciliana è il più interessante e duraturo, non esiste una linea di demarcazione netta e precisa. Entrambi sono fenomeni straordinariamente primitivi, non solo nel senso già chiarito, ma anche in quanto tendono a scomparire non appena si sviluppano movimenti più progrediti. Essi, nel loro insieme, sono scarsamente suscettibili di adattamento. Laddove continuano a sussistere dopo l’avvento dei movimenti moderni, quali le leghe contadine, le associazioni operaie ed i partiti di sinistra, essi perdono ogni carattere di movimenti sociali.

Le mafie – termine che converrà usare per una serie di manifestazioni corrispondenti – hanno un certo numero di caratteri particolari.

Primo, non sono mai puri e semplici movimenti sociali, con scopi e programmi specifici. Costituiscono quasi dei punti di confluenza delle tendenze più. disparate che si agitano in seno alle società che le esprimono: la difesa della intera società contro le minacce al suo tradizionale modo di vivere, le aspirazioni delle varie classi all’interno della società, le ambizioni personali e le aspirazioni di individui attivi.

Esse quindi posseggono un certo grado di fluidità, come i movimenti nazionali, dei quali costituiscono forse una specie di embrione. Dipende dalle circostanze che esse siano caratterizzate dalla nota di protesta sociale dei poveri, come in Calabria, o dalle ambizioni delle classi medie, come in Sicilia, o dalla pura e semplice criminalità, come nella Mafia americana.

Secondo, sono in un certo senso disorganizzate. È vero che alcune mafie sono, almeno sulla carta, centralizzate e hanno vere e proprie «catene di comando» e di iniziativa, forse sul modello degli ordini massonici. Ma la situazione più interessante è quella in cui una vera e propria organizzazione, peraltro molto primitiva, sussiste – o per lo meno è esistita in un certo stadio di sviluppo – soltanto a livello locale, come nella classica Mafia siciliana.

Quali sono le condizioni per effetto delle quali sorgono le mafie? Non è facile rispondere a questa domanda perché non sappiamo neppure quante ce ne siano o ce ne siano state. La Mafia siciliana è l’unica associazione di questo tipo dell’Europa moderna, che sia stata ampiamente descritta e analizzata. Un altro fenomeno straordinariamente simile si è sviluppato recentemente nelle piantagioni di caffè della Colombia, ma non se ne hanno finora notizie pubblicate con particolari 1.

A prescindere da riferimenti casuali ad associazioni a delinquere, società segrete di grassatori e loro protettori, e simili, non sappiamo quasi niente della situazione in altre zone e quel poco che sappiamo ci consente al massimo di affermare che esisteva una situazione da cui la Mafia poteva svilupparsi; non possiamo però dire se quella situazione abbia in effetti originato la Mafia 2.

La mancanza di informazioni non ci autorizza però a concludere per l’inesistenza di un tale fenomeno. Cosi non vi è alcun dubbio sull’esistenza, come vedremo, di una associazione tipo Mafia nella Calabria meridionale. Ma, a prescindere da casuali riferimenti a queste associazioni segrete in Calabria e nel Cilento, sembra che in passato non se ne sia affatto notata

(1) Cfr. G. GUZMAN – O. FALS BORDA – E. UMANA LUNA, La Violencia en Colombia, I, Bogotà. 1962, pp. 131, 170.

(2) Cfr. in ZUGASTI, Bandolerismo cit., Introduzione, vol. I, i rapporti degli alcasi sulla situazione della criminalità nelle zone di loro giurisdizione nella provincia di Cordova, circa 1870; es. una società segreta di grassatori a Baena, una sociedad de ladrones a Montilla, qualcosa che assomiglia alla Mafia nel famoso pueblo di contrabbandieri di Benameji e la sorda opposizione di Iznajar dove «secondo l’abitudine inveterata di questa città, tutti questi delitti sono rimasti impuniti». Sono propenso ad aderire alla tesi del Brenan, secondo cui si tratta di una situazione da protomafia anziché da Mafia. Cfr. anche il capitolo V, sull’anarchismo andaluso.

l’esistenza 1.

Il che è meno strano di quanto possa apparire. Società segrete costituite prevalentemente da contadini analfabeti operano nell’oscurità. Le classi medie cittadine hanno sempre tenuto un atteggiamento di profonda indifferenza e di sovrano disprezzo per la vile umanità che giace ai loro piedi. Perciò l’unica cosa che ci resta da fare è di concentrare la nostra attenzione su uno o due esempi di mafie note, sperando che possano eventualmente fare luce sulla situazione delle altre zone finora inesplorate.

La Mafia è meno conosciuta di quanto si possa supporre. Per quanto i dati di fatto siano pacifici e vi sia un buon numero di opere utili, descrittive e analitiche 2, la pubblica opinione è stata fuorviata in parte dalla tendenza giornalistica a romanzare e in parte dal mancato riconoscimento che «quella che appariva ai piemontesi e ai lombardi come “delinquenza” siciliana, era in realtà la legge di un’altra società … di una società semifeudale» 3. È opportuno quindi riassumere ciò che sappiamo sull’argomento.

La parola Mafia sta a significare qui molte cose diverse. Primo, rappresenta un atteggiamento collettivo verso lo Stato e le sue leggi, non più criminale di quanto lo sia il

(1) G. ALONGI, La Camorra, Torino 1890, p. 30. Lo studio sulla camorra in Calabria (in «Archivio di psichiatria», IV, 1883, p. 295) tratta soltanto di un’organizzazione di delinquenza urbana a Reggio Calabria ignorando del tutto l’aspetto rurale del fenomeno. Va osservato come lo studio di tale genere di associazione sia stato coltivato soprattutto dalla scuola di criminologia dei positivisti italiani (Lombroso) il cui organo era l’«Archivio».

(2) Le principali fonti di consultazione, oltre ad interviste personali in Sicilia, sono: N. COLAJANNI, La delinquenza in Sicilia (1885); ID., La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi (1900); A. CUTRERA, La Mafia ‘ed i Mafiosi (1900); G. ALONGI, La Mafafia (I887); G. MONTALBANO, La Mafa, in «Nuovi Argomenti», novembre-dicembre 1953; inchieste ufficiali varie ed opere sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia, fra cui l’ottimo saggio di L. FIANCHETTI, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia (1887); gli articoli di G. Mosca sul «Giornale degli Economisti» del 1900 e l’Encyclopaedia of Social Sciences. La vasta mole di letteratura scientifica ed approfondita sull’argomento, è apparsa nel periodo tra il 1880 ed il 1910. Dopo la prima stesura di questo capitolo, sono uscite altre importanti opere, quali R. ROCHEFORT, Le travail en Sicile, Paris 1961; M. PANTALEONE, Mafia e. politica 1943-1962, Torino 1962; D. DOLCI, Spreco, Torino 1962. 2 Le prime due opere contengono utili bibliografie.

(3) E. SERENI, II Capitalismo nelle campagne 1860-1900, Torino 1948, p, 187.

similare comportamento diciamo, degli scolari verso il maestro.

Un mafioso, nelle sue private dispute non invocava lo Stato o la legge ma si guadagnava rispetto e sicurezza conquistandosi una reputazione di forte e coraggioso e regolava le proprie vertenze con la lotta. Non riconosceva altri obblighi se non quelli del codice di onore o di omertà, la cui norma fondamentale vietava di dare informazioni all’autorità pubblica.

In altri termini la mafia (con la m minuscola, se usata in questo senso) consisteva in quel codice di comportamento che tende costantemente a svilupparsi nelle società in cui manca un efficiente ordinamento dei pubblici poteri o nelle quali le autorità sono considerate ostili, totalmente o parzialmente (per esempio nelle prigioni o fra gli strati sociali pili bassi), oppure insensibili alle cose che contano veramente (per esempio nelle scuole), o le due cose insieme.

Si deve resistere alla tentazione di stabilire un nesso di relazione tra un codice siffatto e il feudalesimo, le virtù aristocratiche o cose del genere. Il suo impero più completo e vincolante si aveva tra i souteneurs e i piccoli teppisti dei bassifondi di Palermo, di condizione quanto mai prossima ai «senza legge» o meglio a uno Stato alla Hobbes, in cui le relazioni tra individui o piccoli gruppi sono simili a quelle tra poteri sovrani.

È stato esattamente osservato come nelle zone veramente feudali dell’isola l’omertà tendesse a significare che era permessa soltanto la denuncia del debole o del vinto 1. Laddove esiste una struttura di potere consolidata, l’onore tende a divenire appannaggio dei potenti.

Nelle comunità senza leggi il potere raramente si disperde nell’anarchismo delle competizioni individuali ma si concentra attorno ai centri di forza locali. Forma tipica ne è il patronato e tipico titolare il maggiorente o padrone con il suo gruppo di aiutanti e dipendenti e la rete di influenza che gli si stende attorno e induce la gente a porsi sotto la sua protezione.

La Mafia, nel secondo significato della parola, è quasi sinonimo di protezione, riferita però più ai seguaci (la «bassa Mafia») che ai padroni. Il sistema presentava alcuni aspetti certamente feudali, spe-

(1) FRANCHETTI, Condizioni politiche cit., pp, 219-21.

cialmente nei latifondi dell’interno; ed è molto probabile che in Sicilia (dove le situazioni feudali vennero ufficialmente abolite solo nel XIX secolo e ancora oggi i suoi simboli sopravvivono nelle battaglie tra cavalieri e saraceni dipinte sulle sponde dei carretti contadini) forme di fedeltà feudale ne abbiano favorito la formazione. Questo però ne è un aspetto minore, dato che la formazione di un patronato e la funzione dei suoi emissari può aversi anche senza alcuna tradizione feudale. Ciò che caratterizzava la Sicilia era la prevalenza generale di tale patronato e la virtuale assenza di qualsiasi altra forma di potere stabile.

La terza e più usata accezione della Mafia non si distingue agevolmente dalle precedenti: consiste nel controllo della vita della comunità mediante un sistema segreto (o meglio non riconosciuto ufficialmente) di bande. Sembra probabile che ad alcuni stadi della sua storia questo tipo di Mafia fosse, in teoria, una società segreta organizzata gerarchicamente, con un capo nominale che si rivendicava una certa autorità sugli altri membri; in pratica, tuttavia, non poté mai funzionare effettivamente in tal senso 1.

Probabilmente la più chiara puntualizzazione della situazione è quella offerta dal rapporto del 1931 del procuratore di Palermo: «le associazioni dei piccoli centri di ordinario esercitavano la giurisdizione in essi e nei Comuni contermini; quelle dei centri più importanti erano in relazione fra loro e anche nelle province finitime, prestandosi reciproco aiuto e assistenza» 2.

Infatti, trattandosi di un fenomeno essenzialmente rurale all’inizio, è difficile credere che la Mafia abbia potuto essere centralizzata gerarchicamente con lo stato delle comunicazioni quale era nel XIX secolo. Esisteva piuttosto una rete di bande locali («cosche» – oggi pare si chiamino «famiglie»), ora com-

(1) Alla domanda se In Mafia sia mai stata una gerarchia centralizzata, è ancora difficile rispondere con esattezza. Ma per il decentramento de facto di un gruppo del genere, organizzato gerarchicamente, se pure solo in teoria, vedi In testimonianza di J. Valachi sulla cosiddetta Mafia americana. Da tale testimonianza si vede come il controllo diretto di Vito Genovese sulle famiglie che lo riconoscevano quale capo, fosse assai limitato. Una inchiesta recente ha dimostrato che quanto sussisteva dell’unità teorica, è stato spezzato (cfr. C. RISÉ, in «L’espresso», 14 luglio 1963).

(2) Citato in MONTALBANO, La Mafia cit., p. 179.

poste di due o tre uomini, ora molto più numerose, ciascuna delle quali controllava un determinato territorio, di norma un comune o un latifondo, reciprocamente collegate in vari modi. Ogni cosca sfruttava il proprio territorio; talora però, come all’epoca della transumanza delle greggi, le bande dei territori attraverso i quali passava il bestiame cooperavano. Le migrazioni dei mietitori e specialmente la possibilità che la vita del latifondo offriva di avvicinare avvocati in città e di frequentare i numerosi mercati di bestiame e le fiere in tutta la regione, favorivano ulteriori contatti fra i vari gruppi locali 1.

I membri delle cosche si riconoscevano fra di loro non tanto da segni convenzionali segreti o da parole d’ordine quanto dall’aspetto, dal vestito, dal modo di parlare e di comportarsi. Il loro particolare comportamento è determinato dall’abituale atteggiamento di virilità jattante, dalla condizione di parassitismo e fuori legge ed è destinato, in una società senza legge, ad affermare il potere dei lupi sulle pecore – e forse anche sui leoni – ed a tenerli separati dal gregge.

I bravi nei Promessi Sposi del Manzoni si vestono e si comportano in maniera molto simile ai picciotti siciliani di due secoli e mezzo dopo. D’altro canto ogni banda, nei primi anni dopo il 1870, aveva rituali di iniziazione e parole d’ordine singolarmente standardizzati, che però sembra siano in seguito caduti in disuso 2.

Che siano o meno nati, come sostiene Cutrera, nelle prigioni di Milazzo e poi divulgati attraverso canti popolari o letteratura tipo la Vita e coraggiose imprese del bandito Pasquale Bruno, non saprei dire. È però evidente che si trattava dei rituali di una fratellanza di sangue di antica tradizione mediterranea. Il rito culminante – eseguito di solito (salvo fosse impossibile, come nelle prigioni) di fronte all’immagine di un santo – consisteva nel bucare il pollice dell’iniziato e con il sangue estrattone im

(1) ALONGI, La Mafia cit., pp, 70 sgg.

(2) MONTALBANO, La Mafia cit. La più esauriente descrizione di questi rituali si ha a proposito degli stoppaglieri di Monreale e località finitime e della fratellanza cli Favara (in provincia di Agrigento), e centri viciniori in varie opere, ad esempio Montalbano, Si veda anche F. LESTINGI, L’associazione della Fratellanza, in «Archivio di psichiatria» ), V, 1884, pp. 452 sgg.

brattare l’immagine del santo, che poi veniva bruciata. Quest’ultima azione può darsi fosse destinata a legare il novizio alla fratellanza mediante la cerimonia di infrangere un tabù: viene anche citato un rito consistente nello sparare con una pistola contro una statua di Gesti Cristo 1.

Una volta iniziato, il mafioso diventava un compare e la parentela spirituale in Sicilia e in altre zone del Mediterraneo, rappresentava una forma di parentela artificiale che comportava i più gravi e solenni obblighi di aiuto reciproco tra le parti contraenti. Anche le parole d’ordine sembrano esser state standardizzate. Ciò però non prova che l’associazione fosse centralizzata poiché anche la camorra – organizzazione esclusivamente napoletana senza legami con la Sicilia – aveva riti di iniziazione basati su di una fratellanza di sangue di tipo similare 2.

A quanto ne sappiamo, pare che ciascun gruppo, per quanto standardizzato, vedesse in questi rituali un proprio legame particolare, quasi come i bambini che adottano a mo’ di linguaggio strettamente privato una comune formula convenzionale per storpiare le parole. È probabile che la Mafia abbia sviluppato qualche genere di coordinamento quasi nazionale, la cui direzione centrale – peraltro non nel senso rigoroso del termine – aveva sede a Palermo. Come vedremo, una tale direzione rifletteva la struttura economica e politica e l’evoluzione della Sicilia piuttosto che una vera e propria pianificazione della criminalità.

Sotto il regime borbonico o piemontese la Mafia (in tutti e tre i significati della parola), pur vivendo talora in uno strano rapporto di simbiosi con quei regimi, espresse parallelamente un proprio sistema di legge e di potere organizzato; erano questi in effetti l’unica legge e l’unico potere efficienti per i cittadini delle zone sotto l’influen-

(1) MONTALBANO, La Mafia cit., p. 191. In sostanza questo è il rito d’iniziazione della Mafia quale era ancora usato in America nel 1930; tuttavia lì non si bruciava l’immagine di un santo ma un pezzo di carta. Per particolari in proposito, vedere In testimonianza resa da J. Valachi davanti alla Sottocommissione permanente del Senato per le investigazioni («New York Times», 2 ottobre 1963).

(2) Si veda in E. REID, Mafia, pp, 143-44, una iniziazione n New York nel 1917; ALONGI, La .Mafia cit., p. 41.

za della Mafia. In una società quale la siciliana, in cui il governo ufficiale non poteva e non voleva esercitare un potere effettivo, era inevitabile o l’avvento di un tale sistema, con la comparsa del potere delle bande, oppure l’avvento della alternativa al sistema stesso, rappresentato dai corpi armati privati e delle guardie del corpo dell’America liberista. Ciò che distingue la Sicilia è l’estensione territoriale e la coesione di un tale sistema di potere, a carattere privato e parallelo a quello ufficiale.

Il sistema non aveva però applicazione generale poiché non tutti i settori della società siciliana ne avvertivano in ugual maniera la necessità. Il codice dell’omertà non fu mai applicato, ad esempio, dai pescatori e marinai né si affermò compiutamente nelle città – salvo che presso i più bassi strati sociali; intendiamo le vere città e non i grossi agglomerati in cui i contadini siciliani vivevano, nel cuore di una campagna deserta, battuta dai briganti e forse anche malarica.

Infatti gli operai delle città, specialmente in periodo di rivoluzioni – come a Palermo nel 1773 e nel 1820 e ’21 – miravano ad organizzare proprie milizie cittadine o «ronde» finché l’alleanza delle classi dominanti, nel timore di sviluppi rivoluzionari, riuscì ad imporre, dopo il 1848, la Guardia Nazionale, più fidata sotto il profilo sociale, e successivamente corpi misti di polizia e mafiosi 1.

D’altra parte c’erano determinati gruppi che avevano particolare necessità di disporre di difese private. I contadini dei vasti latifondi dell’interno e i minatori di zolfo avevano bisogno di qualcosa d’altro che le periodiche jacqueries per alleviare la propria miseria.

Per i proprietari di determinati tipi di beni – il bestiame, che negli incustoditi recinti siciliani è esposto alle facili razzie, cosi come avviene in Arizona; aranci e limoni, anch’essi incustoditi e facile richiamo di ladri nei frutteti della costa – la protezione era questione di vitale importanza. E in effetti la Mafia si sviluppò proprio in quelle tre zone; dominava la Conca d’Oro, irrigata e a frutteti, con i suoi poderi fertili e spezzettati, le zone delle miniere di zolfo

(1) Cfr. in MONTALBANO, La Mafia cit., pp. 194-97, una notevole trattazione del problema.

del centro-sud e i latifondi aperti dell’interno. Fuori di queste zone la Mafia era più debole e tendeva a scomparire nella parte orientale dell’isola.

È erroneo credere che istituzioni d’apparenza arcaica siano effettivamente molto antiche. Può darsi invece che esse siano sorte di recente (per quanto costituite da materiale antico o pseudo-antico) per scopi moderni, come ad esempio le cosiddette scuole pubbliche o l’aspetto coreografico della vita politica inglese.

La Mafia non è una istituzione medioevale ma del XIX e XX secolo. Il periodo della sua maggiore prosperità si ha dopo il 1890. Non v’è dubbio che i contadini siciliani nel corso della storia abbiano vissuto, sin da quando la Sicilia divenne la terra tipica del latifondo, sotto il duplice regime di un governo centrale, lontano e generalmente straniero, e di un regime locale di schiavi e di signori feudali.

Non vi è dubbio neppure che essi erano abituati (né avrebbe potuto essere altrimenti) a considerare il governo centrale non come un vero Stato ma soltanto come una specie particolare di brigante i cui soldati, esattori di tasse, poliziotti e tribunali piombavano periodicamente su di loro. Conducevano la loro vita isolata di analfabeti tra il padrone, con i suoi emissari e parassiti, e le proprie abitudini ed istituzioni conservatrici. In un certo senso, quindi qualcosa di simile al «sistema parallelo» dovette sempre esistere, come esiste in ogni società contadina arretrata.

Ciò non era però ancora la Mafia, per quanto contenesse in sé la maggior parte degli elementi grezzi, dai quali si sviluppò la Mafia. Sembra infatti che la Mafia, in senso proprio si sia sviluppata soltanto dopo il 1860.L’uso del termine Mafia, nella sua accezione moderna, compare soltanto nei primi anni successivi al 1860 1; anteriormente, comunque, era stato circoscritto al gergo di un solo quartiere di Palermo. Uno studioso di storia locale della Sicilia occidentale -che fu covo di Mafia – non ne trova traccia di sorta nella sua città prima del 1860 2. Invece il ter-

(1) G. PITRE, Usi e costumi… del popolo siciliano, III, 1889, pp. 287 sgg.; voce «Mafia» nell’ Encyclopaedia of Social Sciences.

(2) S. NICASTRO, Dal Quarantotto al Sessanta in Mazzara, 1913, pp. 80-81.

mine dal 1866 viene già usato correntemente da parte di Maggiorani, e, subito dopo il 1870, è di uso comune nelle discussioni politiche. È evidente che in qualche regione – soprattutto, forse, nella provincia di Palermo – la Mafia dovette affermarsi in epoca ancora precedente. Non potrebbe esserci nulla di più tipicamente mafioso della carriera di Salvatore Miceli, il padrone di Monreale, che portò le sue squadre armate a combattere contro i Borboni a Palermo nel 1848, poi fu perdonato e nominato capitano dell’esercito borbonico intorno al 1850 (tratto davvero caratteristico), portò i suoi uomini in aiuto a Garibaldi nel 1860 e fu ucciso mentre combatteva i piemontesi nella rivolta palermitana del 1866 1. E nel 1872 la Mafia di Monreale era sviluppata a tal punto che si verificò la prima di quelle rivolte, poi divenute endemiche, della «giovane Mafia» contro la «vecchia Mafia» (aiutata dalla polizia, che cercava cosi di indebolire l’associazione) e ne derivò la «setta» degli stoppaglieri 2.

Tuttavia qualcosa di importanza quasi determinante dovette verificarsi nel «sistema parallelo» dopo l’abolizione ufficiale del feudalesimo in Sicilia (1812-38) e specialmente dopo la conquista da parte della borghesia settentrionale. Ma che cosa?

Per rispondere a questa domanda siamo costretti a ricapitolare le nostre cognizioni sulla composizione e struttura della Mafia nel suo stadio di maggior sviluppo. La prima caratteristica, di gran lunga la più importante, consiste nel fatto che tutti i capi delle Mafie locali erano (e sono tuttora) persone facoltose, alcune ex feudatari di zone dell’interno, ma prevalentemente appartenenti alla classe media, agricoltori capitalisti e appaltatori, avvocati e simili. Su questo punto esistono prove inoppugnabili 3.

Fin dalle sue origini rurali la Mafia portava in sé i germi di una rivoluzione poiché alla metà del XIX secolo la terra di proprietà della borghesia non superava in Sicilia il 10% circa dell’area coltivata. La spina dorsale della Mafia era-

(1) CUTRERA La Mafia ed i mafiosi cit., pp. 170-74.

(2) «Giornale di Sicilia», 21 agosto 1877, citato da MONTALBANO, La Mafia cit. pp, 167-74.

(3) CUTRERA, La Mafia ed i mafiosi cit., pp. 73, 88-89, 96; FRANCHETTl, Condizioni politiche cit., pp. 170-72. Il fenomeno del .gangsterismo come espressione tipica della classe media sbalordì e turbò il Franchetti.

no i gabellotti – appartenenti alla classe media più ricca -, che corrispondevano ai proprietari feudali assenteisti un affitto globale per l’intera proprietà e subaffittavano ai contadini e praticamente erano diventati l’effettiva classe dominante, al posto dei padroni. In effetti, nelle zone di Mafia, essi erano tutti, a quanto pare, mafiosi. Il sorgere della Mafia riflette cosi, nell’ambito del «sistema parallelo», il trasferimento del potere dalla classe feudale al ceto medio rurale, una fase della nascita del capitalismo rurale.

Allo stesso tempo la Mafia fu uno degli strumenti principali di questo trasferimento; infatti se il gabellotto se ne serviva per imporre condizioni a fittavoli e mezzadri, se ne serviva anche per imporsi al padrone assenteista. Un equivalente esatto di questo fenomeno si riscontra nella cofradia de mayordomos (confraternita di fattori) del dipartimento di Caldas in Colombia. Questi usano sistemi terroristici e intimidatori tanto nei confronti dei latifondisti quanto degli affittuari, al fine di assicurarsi il controllo delle zone coltivate a caffè, del raccolto e dello smercio del prodotto.

La Mafia, per il fatto di trovarsi in mano a una classe che potrebbe dirsi di uomini d’affari, poté anche sviluppare una rete di influenze quali mai avrebbe potuto avere se fosse stata soltanto una faccenda da «tipi duri», con orizzonte limitato ai confini del comune di residenza. La maggior parte dei gabellotti aveva rapporti con Palermo, dove percepivano le loro rendite i baroni e i principi assenteisti, così come nel XVIII secolo tutti i distretti irlandesi erano collegati a Dublino.

A Palermo risiedevano gli avvocati (che di solito erano figli o nipoti istruiti della borghesia campagnola), che stipulavano i trasferimenti di proprietà; i funzionari e i tribunali da «orientare »; i commercianti che disponevano dei prodotti tradizionali, quali bestiame e grano, e dei nuovi prodotti ad alto reddito quali aranci e limoni. Palermo era la capitale, dove per tradizione avevano luogo le rivoluzioni, cioè le decisioni fondamentali per la politica siciliana. È quindi più che naturale che le fila locali della Mafia confluissero tutte là, come pare sia stata la tendenza all’inizio del secolo e probabilmente di nuovo oggigiorno. Tuttavia è significativo il fatto che i capi nominali della Onorata Società continuavano a provenire dalla zona latifondista dell’interno, dove forse ebbe origine la Mafia: don Vito Cascio Ferro, prima del fascismo, da Bisacquino, don Calogero Vizzini da Villalba, Giuseppe Genco Russo da Mussameli 1.

L’apparato di coercizione del «sistema parallelo», al pari della sua struttura politica e legale, non aveva una forma rigida né era centralizzato, ma raggiungeva ugualmente il proprio scopo di assicurare acquiescenza all’interno e potere all’esterno – cioè controllare la popolazione locale e logorare il governo straniero. Non è facile fornire un quadro chiaro e conciso della sua struttura. In ogni società miserabile e oppressa, quale la siciliana, esiste una vasta riserva potenziale di uomini risoluti, come di prostitute.

«L’uomo cattivo», secondo un’incisiva espressione del gergo della malavita francese, è affranchi: e l’individuo non ha altro mezzo per sottrarsi ai vincoli di un virtuale servaggio se non quello di diventare sgherro o fuorilegge. In Sicilia questa grande riserva era formata prevalentemente da tre gruppi: i soprastanti e le forze di polizia privata (quali guardiani e campieri che sorvegliavano frutteti ed ovili); i banditi e i fuorilegge professionali; e fra i lavoratori regolari, quelli più forti e sicuri di sé.

È necessario convincersi che la migliore opportunità che si presentasse a un contadino o a un minatore per mitigare l’oppressione di cui era vittima consisteva nel farsi una reputazione di duro o di amico di duri. Il normale centro di confluenza di costoro era l’entourage del locale maggiorente, che ingaggiava uomini di fegato e senza scrupoli e proteggeva i fuorilegge, anche se erano soltanto motivi di prestigio che lo inducevano a farlo, per dimostrare il proprio potere.

Cosi veniva a formarsi una rete locale di interessi fra proprietari, guardie private, pastori, banditi, bravacci e uomini di fegato. Quasi certamente furono due gli elementi che determinarono l’evoluzione di una situazione del genere e la sua trasformazione in Mafia. In primo luogo, il tentativo da parte del debole governo dei Borboni di costituire le Com-

(1) PANTALEONE, Mafia e politica cit., pp. 34, 45, 118.

pagnie armate, che fallì, come la maggior parte dei tentativi di affidare la tutela della sicurezza pubblica all’iniziativa privata, fatti da governi deboli per tema di aggravi finanziari.

Le Compagnie armate, dislocate in zone diverse, ognuna con propria autonomia, erano tenute a rispondere in proprio per i furti e le rapine consumate nella propria zona. Ne conseguiva che, date le condizioni della Sicilia, l’interesse preminente di ciascuna compagnia consisteva nell’indurre la delinquenza locale a rubare altrove dietro promessa di accordare un diritto di asilo locale oppure nel contrattare privatamente la restituzione della refurtiva.

Da un comportamento del genere ad una effettiva partecipazione delle Compagnie armate – i cui componenti erano della stessa pasta dei briganti – all’attività criminale il passo era breve. In secondo luogo il crescente pericolo rappresentato dal malcontento nelle città e nelle campagne, specialmente dopo l’abolizione del feudalesimo.

Il fermento era, come al solito, particolarmente vivo fra i contadini, impegnati in una lotta, che sarebbe poi diventata perenne, contro la classe media rurale per il possesso delle terre pubbliche ed ecclesiastiche, delle quali la classe media tendeva ad appropriarsi. In un’epoca in cui le rivoluzioni ricorrevano con una frequenza impressionante – quattro o cinque in quarantasei anni – era perfettamente naturale che i ricchi tendessero ad assoldare uomini per la difesa dei propri interessi – le cosiddette controsquadre – o adottassero altre misure per non lasciarsi sopraffare dalle rivoluzioni; ed alle mene del mafioso niente giovava di più di questa combinazione fra ricchi (terrieri) e gente decisa a tutto.

I rapporti tra Mafia, picciotti o emissari e briganti erano quindi di una certa complessità. Come proprietari i capi-mafia non avevano interesse di sorta all’attività criminale; avevano però interesse a mantenere un corpo di seguaci armati per fini di coercizione. D’altra parte agli elementi assoldati si dovevano consentire ruberie e riservare un determinato campo per l’iniziativa individuale. I banditi, infine, rappresentavano un flagello quasi generale, per quanto anche essi potessero occasionalmente servire a rafforzare il potere dei padroni (il bandito Giuliano fu incaricato di sparare su di un corteo di contadini il primo maggio 1947 ed è noto il nome dell’influente personaggio palermitano che combinò l’affare).

Tuttavia, mancanza di un apparato del potere statale centrale, il banditismo non poteva venire eliminato. Da qui quella singolare soluzione di compromesso, che è cosi tipica della Mafia: monopolio locale di estorsione controllata (che spesso assurge a vera e propria istituzione, al punto da perdere i propri caratteri di forza bruta ) con eliminazione di ogni intruso. Il coltivatore di aranci della regione palermitana era costretto ad assumere un guardiano (di frutteti); se era ricco, poteva essere obbligato qualche volta a contribuire al mantenimento dei picciotti; se veniva derubato, poteva recuperare il suo avere decurtato di una percentuale, salvo che non fosse in rapporti particolari con la Mafia. Il ladro individuale era escluso 1.

Nelle formazioni militari della Mafia si può riscontrare un identico miscuglio di lealtà e sottomissione dei dipendenti e di profitto personale dei combattenti. Quando scoppiava la guerra, il padrone locale arruolava le sue squadre – composte prevalentemente, ma forse non esclusivamente, di membri delle cosche locali. I picciotti si univano alle squadre, alcuni per seguire il padrone (quanto più influente era il capo-mafia, tanto pili numeroso era il suo gruppo), altri per accrescere il proprio prestigio con l’unico mezzo che gli si offriva, cioè con bravate e violenze, ma anche perché guerra significava guadagno.

Nelle rivoluzioni più importanti i capi-mafia pattuivano con i liberali palermitani una paga giornaliera di quattro tarì per uomo, oltre ad armi e munizioni e la promessa di questa paga (per non parlare dei saccheggi di guerra) faceva moltiplicare le squadre.

(1) Opinione errata tra le più comuni, – tramandata in opere quali L’ultima battaglia delta Mafia dell’ineffabile prefetto MORI e Ia I° ed. di Sicilia del GUERCIO – è quella che confonde In Mafia con il banditismo. La Mafia manteneva l’ordine pubblico con mezzi privati e, generalmente parlando, difendeva Ia popolazione proprio contro il banditismo.

II.

Era questo, allora, il «sistema parallelo » della Mafia. Non possiamo affermare che fosse stato imposto ai siciliani da qualcuno. In un certo senso venne espresso dai bisogni di tutte le classi rurali, e ne servì gli interessi in misura diversa.

Ai deboli – contadini e minatori – offriva quanto meno qualche garanzia che le obbligazioni sarebbero state rispettate 1 e che il peso tradizionale dell’oppressione non sarebbe stato sistematicamente aggravato; il terrore mitigava le tirannie tradizionali. E forse realizzava anche un desiderio di rivincita, facendo sì che i ricchi avessero qualche volta la peggio e che i poveri, sia pure come fuorilegge, potessero combatterli. E, in certi casi, poteva anche fornire il nucleo strutturale di una organizzazione rivoluzionaria o difensiva. (Sembra comunque che intorno al 1870 ci sia stata una certa tendenza alla fusione 2 fra associazioni e gruppi semimafìosi, quali la fratellanza del centro zolfifero di Favara, i fratuzzi di Bagheria e gli stoppaglieri di Monreale).

Per i feudatari era un sistema per salvare proprietà ed autorità; per le classi medie rurali un mezzo per conquistarle. Per tutti costituiva un mezzo di difesa contro gli sfruttatori stranieri – governi borbonici o piemontesi – e di rivendicazione autonomista nazionale o locale. Finché la società siciliana conservò un assetto essenzialmente statico e feudale e rimase soggetta a un potere esterno, la Mafia, con il suo carattere di cospirazione nazionale anticollaborazionista, le forni una base popolare genuina. Le squadre combatterono con i liberali palermitani (comprendenti l’aristocrazia siciliana antiborbonica) nel 1820, 1848 e 1860. Si trovarono alla testa della prima grande rivolta contro la dominazione del capitalismo del Nord nel 1866. Il carattere nazionale,

(1) Cfr. N. COLAJANNI, Gli avvenimenti di Sicilia, Palermo 1894, cap. V, a proposito della funzione della Mafia come codice dei rapporti fra le diverse categorie di minatori di zolfo, specialmente alle pp. 47-48.

(2) Non mi convince Ia tesi, sostenuta da .MONTALBANO, che il sorgere di queste Associazioni intorno al 1870 vada interpretato soltanto in termini di rivolta degli elementi giovani della Mafia contro i vecchi; questo potrà essere il caso di Monreale.

e fino ad un certo punto popolare, della Mafia, ne accrebbe il prestigio e le assicurò la generale simpatia e l’omertà. Si trattava ovviamente di un movimento complesso, comprendente elementi di reciproco contrasto. Pur se a malincuore, lo studioso deve resistere alla tentazione di una classificazione più rigorosa dal punto di vista storico della Mafia in questo stadio del suo sviluppo. Cosi non può condividersi la tesi di Montalbano, secondo cui i picciotti, che allora formavano le squadre, non sarebbero stati veri Mafiosi con la M maiuscola, ma soltanto mafiosi con la m minuscola mentre la «vera» Mafia sarebbe stata costituita dalle controsquadre, formazioni di parte padronale già specializzate e agguerrite. Ciò equivale ad applicare schemi validi per la Mafia del XX secolo a un’epoca cui tali schemi sono estranei 1.

In effetti è dato supporre che la Mafia abbia realizzato i primi veri progressi sulla via della sua maggiore potenza (ed abuso) ponendosi quale movimento regionale siciliano di rivolta contro le disillusioni dell’unità italiana dopo il 1860, più efficiente del parallelo e contemporaneo movimento guerrigliero dei briganti nell’Italia continentale del Sud. Essa, come abbiamo visto, aveva legami politici con l’estrema sinistra, dato che i radicali garibaldini costituivano il principale partito italiano di opposizione. Questo carattere della Mafia mutò poi per tre ordini di motivi.

Primo, il sorgere di rapporti capitalistici nella società isolana. L’avvento di forme moderne di movimenti contadini ed operai, che mutarono radicalmente l’antica situazione, in cui l’odio di silenziose congiure si alternava a massacri sporadici, misero la Mafia di fronte a uno stato di cose assolutamente nuovo. Per l’ultima volta nel 1866 essa si ribellò con le armi contro le autorità. La grande rivolta contadina del 1894 -i fasci siciliani – la trovò dalla parte della reazione o, nella migliore delle ipotesi, in posizione di neutralità.

Del resto tali rivolte erano organizzate da capi di nuovo genere – i socialisti del luogo – legati a nuove forme di organizzazione, i fasci o le associazioni di mutua difesa, indipendenti dai picciotti. Comin-

(1) :MONTALBANO, La Mafia cit., p. 197.

ciò così’. a determinarsi quel rapporto, tipicamente moderno, di proporzionalità inversa tra forza della Mafia e attività rivoluzionaria. Fu anche osservato allora che il sorgere dei fasci aveva diminuito il dominio della Mafia sui contadini 1. Nel 1900 Piana dei Greci, roccaforte socialista, per quanto al centro dell’impero della Mafia, aveva risentito notevolmente meno di altri centri l’influenza della Mafia 2. Briganti e mafiosi prendono il posto di movimenti sociali soltanto nelle comunità politicamente arretrate e deboli. Nonostante questi cedimenti in singole località, non vi è dubbio però che la Mafia nel suo complesso fosse, durante questo periodo, ancora in fase di espansione nella zona occidentale della Sicilia. Quanto meno ci sembra lo confermino le inchieste parlamentari del 1884 e 1910 3. La seconda ragione del mutamento degli originari caratteri della Mafia è da ricercarsi nel fatto che la uova classe dominante dell’economia agricola siciliana, i gabellotti ed i loro collaboratori cittadini, scoprirono un modus vivendi con il capitalismo settentrionale. Mancavano motivi di concorrenza perché l’economia siciliana non era interessata alla industria manifatturiera e taluni dei suoi prodotti più importanti, quali gli aranci, difficilmente potevano venire coltivati nel Nord; la trasforma-

(1) E. C. CALON, La Mafia, Madrid 1906, II.

(2) Vedi in Cutrera la preziosa carta della distribuzione della Mafia. Piana, per quanto apparentemente restia ad adottare formule di organizzazione contadina, diventò In grande roccaforte dei fasci del 1893 e da quell’epoca è sempre stata una fortezza del socialismo (e più tardi del comunismo). Che in precedenza ci fosse stato un dominio della Mnfia è possibile arguire dalla storia della Mafia a New Orleans, Ia cui colonia siciliana, arrivata intorno al 1880, comprendeva un notevole contingente di pianesi, a giudicare dalla ricorrenza di caratteristici cognomi albanesi: Schirò, Lojacono, Matranga. I Matranga – membri degli stoppaglieri – controllavano il racket del porto ed ebbero un ruolo preponderante negli episodi di Mafia del 1889 a New Orleans (REID, Mafia cit., pp. 100 sgg.). Evidentemente la famiglia continuò nell’attività mafiosa, poiché nel 1909 il tenente Petrosino della polizia di New York, poi ucciso n Palermo – presumibilmente dalla Mafia – indagava sulla vita di un membro della famiglia (ibid., p. 122), Ricordo di aver visto a Piana nel 1953 Ia tomba monumentale di un Matranga, rientrato di recente dagli Stati Uniti e trovato pochi anni prima ucciso per strada in circostanze che nessuno si preoccupò di indagare.

(3 ) A. DAMANI, Inchiesta agraria, 1884, Sicilia, vol. III; G. LORENZONI, lnchiesta Parlamentare, 1910, Sicilia, vol. VI, 1-2; specialmente alle pp. 649-51.

zione del Sud in una colonia agricola del Nord commerciale ed industriale non ledeva quindi gli interessi degli agrari siciliani. D’altro canto l’evoluzione politica del Nord forniva loro un sistema assolutamente nuovo e di valore inestimabile per la conquista del potere: il voto. La grande stagione del potere della Mafia -che preludeva però al suo declino – ha inizio con il trionfo del liberalismo nella politica italiana e si sviluppa con l’estendersi dell’affrancamento.

Per gli uomini politici del Nord, finita l’epoca del conservatorismo seguito all’unificazione, il Sud non costituiva un problema. Esso poteva assicurare una maggioranza stabile a qualsiasi governo avesse opportunamente impiegato lo strumento della corruzione o delle concessioni di privilegi nei confronti dei capi locali capaci di garantire la vittoria elettorale. Il che, per la Mafia, era un gioco da ragazzi. I suoi candidati riuscivano sempre eletti, quasi all’unanimità, in collegi che erano delle vere roccaforti della Mafia. I privilegi concessi e il prezzo pagato per la corruzione, anche se modesti dal punto di vista del Nord data la miseria del Sud, sortivano ben più grande risultato ai fini del potere locale in una regione piccola come metà della Sicilia. La politica creava il potere del capo locale; la politica lo accresceva e lo trasformava in un grosso affare.

La Mafia ottenne questo suo nuovo potere non soltanto perché era in grado di fare promesse e minacce ma perché, a dispetto dei nuovi rivali, era ancora considerata parte del movimento nazionale e popolare; proprio come i capi delle grandi città degli Stati Uniti arrivarono al potere non solo con la corruzione e con la forza ma anche perché rappresentavano per le migliaia di elettori immigrati «i nostri»: irlandesi per gli irlandesi, cattolici per i cattolici, democratici (e cioè avversari dei grandi affaristi) in un paese di prevalente indirizzo repubblicano. Non a caso l’apparato elettorale della maggior parte delle grandi città americane, per quanto corrotto, apparteneva al partito tradizionale di opposizione, allo stesso modo che la maggior parte dei siciliani alimentava l’opposizione a Roma, che negli anni successivi al 1860, si identificava con i garibaldini. Cosi la svolta cruciale nelle fortune della Mafia si determinò solo quando la Sinistra (o gli uomini che si fregiavano dei suoi slogan), dopo il 1876 divenne il partito governativo. In tal modo la Sinistra, come afferma il Colajanni, «produsse in Sicilia e nel Mezzogiorno, una trasformazione che non poté produrre altrove: l’asservimento completo delle masse al governo» 1.

La organizzazione politica siciliana, cioè la Mafia, divenne cosi parte integrante del sistema governativo di favori speculando sul fatto che i propri seguaci, per la mancanza di contatti diretti e per la naturale loro ignoranza, tardassero a rendersi conto che i propri voti non andavano più alla causa della rivolta.

Quando se ne accorsero (come ad esempio durante le sollevazioni degli anni seguenti al 1890) era troppo tardi. La tacita alleanza fra Roma, con le sue truppe e le leggi marziali, e la Mafia, li aveva stretti in una morsa. Era stato instaurato il vero «regno della Mafia». Ora essa costituiva una grande potenza. I suoi membri sedevano in Parlamento a Roma e affondavano le mani nella parte più ricca della greppia governativa: grandi banche, scandali nazionali. La sua influenza ora si estendeva oltre i confini vagheggiati dai capi locali di vecchio stampo, tipo Miceli di Monreale. Alla Mafia non si poteva resistere; ma essa ormai non era più un movimento popolare siciliano come all’epoca delle squadre del 1848, 1860 e 1866.

III.

Ha ora inizio il suo declino. In proposito, le nostre informazioni sono ancora più scarne di quelle che abbiamo sul periodo di splendore, poiché durante l’epoca fascista non fu pubblicato alcuno studio approfondito e successivamente solo un numero molto esiguo 2. Possiamo però

(1) La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi (ed. 1951), p, 78.

(2) Lo studio di gran lunga più importante – e del quale mi sono avvalso proficuamente – è Funzioni e basi sociali della Mafia di F. RENDA, in Il movimento contadino nella società siciliana, Palermo 1956 e MONTALBANO, La Mafia cir.

esporre in breve alcuni fattori determinanti nel corso pili recente della storia della Mafia.

In primo luogo, il sorgere delle leghe contadine e del socialismo (successivamente comunismo), che rappresentarono un’alternativa alla Mafia per le classi popolari, che vennero cosi allontanate da un organismo che sempre più apertamente e decisamente, si trasformava una forza terroristica diretta contro le sinistre 1. Così i fasci del 1893, la recrudescenza delle agitazioni agrarie dell’epoca precedente. la prima guerra mondiale e degli anni agitati successivi al 1918, si posero come pietre miliari sul cammino che separava la Mafia dalle masse. L’epoca postfascista, con la guerra dichiarata fra Mafia e socialismo-comunismo – i massacri di Villalba (1944), e Portella della Ginestra (1947 ), il tentato assassinio del capo comunista siciliano Girolamo Li Causi, l’uccisione di vari organizzatori sindacali – approfondirono la frattura 2.

La base popolare che la Mafia possedeva fra i braccianti senza terra, i minatori di zolfo, ecc., tendeva a diminuire. Esistono ancora, secondo Renda (organizzatore politico e studioso di valore), poche zone rimaste integralmente e «spiritualmente» maliose, ma «lo spirito e le consuetudini della Mafia sopravvivono ai margini dei grandi sentimenti popolari».

La maggior parte delle province-chiave della Mafia specialmente nelle campagne, registra voti socialisti e comunisti. È evidente che l’incremento dei voti dei partiti associati di sinistra dall’11,8% del 1946 al 29,2 % del 1963 a Palermo e dal 29,1.% del 1946 al 44,8% del 1963 nella provincia di Caltanissetta, segna il declino dell’influenza della Mafia come forza decisamente avversa alle sinistre 3. Le sinistre hanno dato ai siciliani un’organizza-

(1) Lo stesso prefetto Mori, a onor del vero, accenna sporadicamente a questo fatto.

(2) Del primoo .e del terzo di questi delitti venne formalmente accusato Calogero Vizzini, un capo mafioso, se non addirittura il capo della Mafia. Del secondo. venne accusato Giuliano (MONTALBANO, La .Mafafia cit., pp, 186-87, cita il rappotto del generale dei carabinieri Branca del 1946. Cfr. MAXWELL,  God protect me from my friends cit., per i rapporti tra la Mafia e Giuliano).

(3) I dati delle elezioni fino al 1953 per le singole province sono tratti da E. GARANTI, Sociologia e statistica delle elezioni italiane, Roma 1954. La percentuale complessiva dei voti socialisti e comunisti nelle quattro province mafiose nel 1963 era del 37,8% contro il 40,4% dei democristiani; la maggior parte dei voti residui era per l’estrema Destra (collegi elettorali di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta).

zione di ricambio, più moderna, ed una certa protezione diretta e indiretta contro la Mafia, specialmente dopo il 1945, se non altro in quanto le forme più gravi del terrorismo politico mafioso tendono ora a destare maggior preoccupazione a Roma. Inoltre, da quando la Mafia non è più in grado di controllare le elezioni, essa ha perduto molto del potere che deriva dal clientelismo. In luogo del «sistema parallelo» ora la Mafia, politicamente parlando, costituisce soltanto un gruppo di pressione molto potente.

In secondo luogo vengono le scissioni interne della Mafia. Esse assumevano ed assumono due forme: le rivalità fra «quelli dentro» (di solito la vecchia generazione) e «quelli fuori» (di solito i giovani) in un paese a reddito limitato e ad alto livello di disoccupazione e la tensione tra la vecchia generazione di gabellotti ignoranti e gretti – superiori di poco (tranne che per la ricchezza) ai contadini, in danno dei quali si erano ingrassati – e quella dei loro figli di condizione sociale più elevata. I giovani che diventano «lavoratori dal colletto bianco» o avvocati, le ragazze che trovano marito in una società «migliore» – cioè estranea alla Mafia – spezzano la coesione familiare della Mafia, su cui si fonda gran parte della sua forza. La tensione del primo tipo, tra «vecchia» e «giovane» Mafia è di antica data: come abbiamo visto, si verificò in forma tipica a Monreale già nel 1872.

Il secondo genere di tensione lo vediamo a Palermo già nel 1875 ma nelle zone latifondiste dell’interno si è sviluppato soltanto negli ultimi decenni 1. Le rivalità sempre vive tra «vecchia » e « giovane» Mafia, producono quella che Montalbano ha definito «Una strana dialettica»: prima o poi i giovani risoluti, che non possono risolvere il problema dell’esistenza con il lavoro, perché lavoro non ce n’è, sono costretti a risolverlo in qualche altro modo, ad esempio con il delitto. Ma le attività criminali lucrose si trovano sotto il

(1) RENDA, Il movimento contadino cit., p, 219.

controllo dei mafiosi della vecchia generazione, restii a far posto ai giovani e costoro organizzano perciò bande rivali, di solito ricalcando gli stessi schemi della vecchia Mafia; spesso in loro favore interviene l’aiuto della polizia, che spera così di indebolire la vecchia Mafia, e i giovani mafiosi, per raggiungere questo stesso scopo, si valgono della polizia. Prima o poi, se nessuna delle due fazioni è stata in grado di sopprimere l’altra – la maggior parte degli assassinii della Mafia è il risultato di queste micidiali contese – vecchi e giovani si associano, dopo una nuova ripartizione della preda.

Tuttavia è opinione diffusa che la Mafia sia stata, sin dalla prima guerra mondiale, afflitta da dissensi interni straordinariamente acuti, verosimilmente dovuti a quel tipo di tensione familiare che abbiamo sopra descritto, tensione aggravata da effettive divergenze programmatiche, quali dovevano necessariamente sorgere in un’isola, la cui fisionomia economica, sociale e criminale era mutata con crescente rapidità.

Un esempio di tali divergenze programmatiche ci viene dall’America. Colà la Mafia rifiutò all’inizio di trattare con emigranti che non fossero siciliani e combatté notevoli battaglie contro i suoi rivali napoletani, i camorristi, quali ad esempio le famose lotte Matranga-Provenzano a New Orleans intorno al 1880 ed altre battaglie del genere a New York intorno al 1910.

Una ipotesi plausibile è quella secondo cui la liquidazione della «vecchia» Mafia ad opera della «giovane» si sarebbe verificata intorno al 1930, quando la vecchia organizzazione venne sostituita da una versione più moderna, che, a differenza della antica fratellanza di sangue, era disposta a collaborare con i gangster napoletani e perfino ebrei. E nel quadro di tali dissensi che può trovarsi la giustificazione più adeguata delle cause della sopravvivenza o meno della Mafia in seno al gangsterismo americano 1.

(1) Per le vecchie lotte, vedi REID, Mafia cit., pp. 100, 146. Per la purga del 1930 (non riportata da Reid o da Kefauver) cfr. TURRUS & FEDER, Murder Inc., London 1953. La testimonianza che un napoletano, J. VaIachi, sia stato formalmente ammesso in una organizzazione prevalentemente siciliana e che ancora svolge i propri riti nel dialetto dell’isola, pare la prova conclusiva che la Mafia americana ha decisamente infranto Ia tradizione fin dal 1930 (deposizione di Valachi, in «New York TimeS», 2 ottobre 1963).

Più avanti esamineremo le nuove prospettive «affaristiche» della Mafia moderna.

In terzo luogo viene il fascismo. Mussolini, secondo la versione attendibile di Renda, si trovò costretto a combattere la Mafia dal momento che su questa si appoggiava il partito liberale antifascista (le elezioni del 1924 a Palermo avevano dimostrato le possibilità della Mafia liberale di opporsi al processo di affermazione politica del fascismo). Le campagne fasciste contro la Mafia, più che contribuire al crescente suo indebolimento, lo resero evidente e si risolsero puntualmente in quell’identico accordo tacito di collaborazione tra potentati locali e governo centrale che si era verificato in passato.

Sopprimendo le elezioni però il fascismo certamente privò la Mafia del suo principale strumento per mercanteggiare la concessione di favori da parte di Roma; il movimento delle camicie nere forni a mafiosi scontenti e a mafiosi potenziali una magnifica occasione di usare l’apparato statale per soppiantare i propri rivali già affermati e in tal modo approfondì i motivi di discordia all’interno della Mafia.

Le radici del movimento resistettero: dopo il 1943 esso riemerse in pieno. Tuttavia i gravi colpi infertigli e i compromessi cui fu costretto produssero effetti sociali tutt’altro che trascurabili. I grandi mafiosi potevano abbastanza facilmente venire a patti con Roma. L’unica conseguenza derivatane alla maggior parte dei siciliani fu che «sistema parallelo» e governo ufficiale entrarono a far parte di un unico complotto per opprimerli; più che di una inversione di rotta si trattò di un passo avanti sul cammino iniziato nel 1876.

I piccoli mafiosi, d’altra parte, certamente ne scapitarono. Si è perfino ritenuto che le campagne fasciste provocarono «l’arresto di un lungo processo che tendeva ad inserire in misura sempre più larga lo stato medio della Mafia nel sistema della grande proprietà terriera in qualità di piccoli e medi proprietari borghesi» 1.

Non è perfettamente noto come sia rinata la Mafia dopo il 1943. È chiaro – secondo il rapporto Branca del

(1) RENDA, Il movimento contadino cit., p. 213.

1946 – che la Mafia aveva stretti legami con il movimento separatista siciliano, cui andarono le simpatie alquanto avventate degli Alleati dopo l’occupazione dell’isola, e forse anche con l’antico partito della proprietà e dello status quo, il partito liberale.

Successivamente pare si sia affermata una tendenza verso i monarchici e i democristiani. Comunque il rapido declino dei voti liberali e indipendentisti, dal mezzo milione del 1947 ai 220.000 del 1948, sta a significare qualcosa di più di un semplice mutamento di tendenza degli elettori, considerato soprattutto il fatto che in seguito il processo di indebolimento di quei due partiti fu molto pili lento. La maggior parte di questi voti perduti andò ai democristiani, ma i monarchici – il fatto non è irrilevante – non se ne giovarono affatto e continuarono a progredire lentamente per alcuni anni 1.

È stata avanzata l’ipotesi assai attendibile, che il peso della Mafia nelle elezioni, oggi si riduca all’abilità di far cadere i voti preferenziali su un candidato piuttosto che su un altro nell’ambito della democrazia cristiana e della Destra; pertanto essa influisce soprattutto sulle lotte di fazione all’interno di quei partiti.

Nel dopoguerra però la Mafia ha scoperto due nuovi generi di attività economica lucrosa. Nel settore più propriamente criminale gli orizzonti di determinati raggruppamenti della Mafia si sono certamente estesi in campo internazionale, in relazione all’enorme profitto che si può trarre dal mercato nero e dal contrabbando in grande stile, in un periodo che certo passerà alla storia come l’epoca d’oro della criminalità organizzata, ed anche in relazione ai forti legami tra la Sicilia e le forze americane di occupazione, legami rinsaldati a seguito della deportazione in Italia di numerosi famigerati gangster americani.

Non c’è dubbio che parte della Mafia si sia dedicata con entusiasmo al traffico internazionale della droga. Non è nep-

(1) I partiti del regime prefascista – liberali e monarchici – sono tuttora notevolmente forti in determinate zone, che possono forse valere quale indice approssimativo dell’influenza elettorale della «vecchia Mafia»: a Trapani prevalgono su democristiani e socialcomunisti, a Partinico-Monreale – feudo della vecchia Mafia – prevalgono sui socialisti e comunisti. In tipiche zone di Mafia, quali Corleone-Bagheria essi però sono stati superati dalle sinistre e ancora di più dai democristiani (elezioni del 1958).

pure da escludere – in pieno contrasto con l’antico provincialismo – che i mafiosi siano disposti a collaborare ad attività criminali organizzate altrove 1.

Ben più importante nella storia della Mafia è il sistema con cui essa ha potuto resistere alla distruzione del suo principale sostegno, l’economia latifondista. Le proprietà si sono dissolte e molti baroni hanno licenziato loro campieri. Ma il ruolo di influenti personaggi locali ha permesso ai mafiosi di realizzare guadagni sul grande mercato delle vendite di terre ai contadini nell’ambito delle varie leggi di riforma. «Si può affermare – dice Renda – ad esempio, senza tema di sbagliare che la quasi totalità della piccola proprietà contadina sia stata negoziata con l’intermediazione di elementi mafiosi» 2 alle cui mani quindi tendeva a rimanere attaccata buona parte dei terreni e beni di altro genere.

Cosi la Mafia ancora una volta ha avuto la sua parte nella creazione di una classe media siciliana e indubitabilmente sopravviverà al tramonto della vecchia economia. Alla figura tipica del mafioso campiere si è semplicemente sostituita quella del mafioso proprietario terriero e affarista. Il rapido modernizzarsi della Sicilia, la urbanizzazione di Palermo, e l’atmosfera generale di benessere economico in Italia, hanno dato modo alla Mafia di assumere il controllo di nuovi settori dell’attività economica, specialmente nello sviluppo del mercato immobiliare cittadino e di varie forme di commercio e distribuzione.

Evidentemente ciò ha approfondito la frattura tra la «vecchia» Mafia tradizionale e agricola e i «giovani» mafiosi dediti a più moderne imprese criminali ed economiche, talvolta in combutta con ex gangster americani.

Inoltre è chiaro che la emigrazione in massa dalla Sicilia al Nord ha fatto si che le attività della Mafia si estendessero al continente, specialmente a Milano e a Roma 3.

(1) Le gesta dei fuorilegge in Sicilia, in «Il Messaggero», 6 settembre 1955, con il resoconto dell’assassinio Palermo di un contrabbandiere di tabacco da parte della «Mafia su ordine di Napoli».

(2) RENDA, Il movimento contadino cit., p. 2I8.

(3) PANTALEONE, Mafia e politica cit., capp, XI, XVII-XIX; Memoriale sulla

Mafia, in «Rinascita», 12 ottobre I963, pp, 11-12; C. RISE, in «L espresso», 14 luglio 1963.

In qual modo si sia modificata l’organizzazione della Mafia nel corso di una tale evoluzione, non sappiamo. Potrebbe ritenersi che sia diventata un organismo pili centralizzato, a seguito della autonomia regionale, che ha fatto di Palermo un centro ancora più vitale per la Sicilia di quanto non lo fosse in passato, e anche in relazione alle varie tendenze «moderniste» assunte dalla Mafia nella condotta degli affari.

Sul grado di centralizzazione non vi sono che congetture personali e fin quando da fonte giornalistica si continuerà ad additare, contemporaneamente e con la stessa certezza, nei più svariati personaggi i «capi della Mafia», sarà prudente limitarsi alla semplice considerazione che, se una direzione centrale esiste, essa quasi certamente si trova a Palermo e probabilmente nelle mani di avvocati.

IV.

La Mafia è il fenomeno più noto ma non è l’unico nel suo genere. Quanti altri ce ne siano di paragonabili ad essa non lo sappiamo, per il semplice motivo che argomenti del genere hanno attratto raramente l’attenzione degli studiosi e sporadicamente quella dei giornalisti. (I giornali locali sono spesso contrari a pubblicare notizie che potrebbero pregiudicare il «buon nome» della regione, proprio come nelle stazioni balneari sono contrari a pubblicare troppe notizie di nubifragi).

Per quanto la cosiddetta Onorata Società (‘Ndranghita, Fibbia) sin da tempo nota a tutti nella Calabria meridionale e la stessa polizia l’abbia certamente notata fin dal 1928-29, noi dobbiamo la sua conoscenza a una serie di eventi fortuiti verificatisi nel 1953-55.

In quegli anni il numero degli omicidi nella provincia di Reggio Calabria si raddoppiò. E, dato che le attività della Fibbia avevano addentellati politici sul piano nazionale – l’automobile di un ministro fu attaccata dai banditi, per errore secondo alcuni, e i vari partiti si accusarono a vicenda di servirsi dei fuorilegge locali – il comportamento della polizia durante l’agosto e il settembre del 1955 venne illustrato con insolita ampiezza dalla stampa nazionale.

Cosi un dissidio interno all’associazione in cui fu coinvolta la polizia, fece si che molti segreti venissero resi di pubblico dominio. Da tali contingenze dipendono le nostre cognizioni sulle mafie non siciliane.

L’Onorata Società pare si sia sviluppata in epoca .pressappoco contemporanea e sullo stesso modello dei carbonari 2; infatti si dice ancora che la sua struttura e il suo rituale siano di tipo massonico. A differenza però dai carbonari che erano un’associazione di borghesi con finalità di opposizione ai Borboni, l’Onorata Società «si affermò piuttosto come associazione di mutuo soccorso fra persone che volevano difendersi dal potere feudale, statale o poliziesco e da private riaffermazioni di potere».

A somiglianza della Mafia, anch’essa subì una certa evoluzione storica. Sembra però che, a differenza de Mafia siciliana, la Società abbia conservato, molto più spiccatamente della Mafia, il proprio carattere d’organizzazione popolare di autodifesa e di difesa del «sistema di vita calabrese». Questa, almeno, è l’opinione dei comunisti, che, sotto tale riguardo, appaiono degni di fede, data la loro grande avversità ad organizzazioni di quel genere.

L’Onorata Società è cosi rimasta almeno sotto uno dei suoi vari aspetti «un’associazione primitiva, nonché prepolitica composta da contadini, pastori, piccoli artigiani, operai non specializzati, i quali, in un ambiente chiuso e arretrato come quello di determinati villaggi calabresi – special-

(1) C. GUARINO, Dai Mafiosi ai Camorristi, in «Nord e Sud», 13, 1955, pp. 76-107, sostiene che n far scattare la trappola sia stato un membro della società, tal Serafino Castagna, uomo piuttosto inviso, il quale, dopo aver commesso di sua personale iniziativa diversi omicidi particolarmente efferati, richiese l’aiuto della società. per salvarsi. Avendone ricevuto un rifiuto Castagna vistosi perduto, scese a patti con In polizia. Nono­ stante Ia sua testimonianza fu però condannato ugualmente. Cfr. anche G. CERVIGNI, Antologia della Fibbia, ivi, 18, 1956

(2) La mia tesi si fonda su GUARlNO, Dai Mafiosi ai Camorristi; cit.; CERVIGNI Antologia della Fibbia cit.; A. FIUMANÒ e R. VILLARI, Politica e Malavita in «Cronache meridionali», II, 10, 1955, pp. 653 sgg., ma soprattutto sui servizi giornalistici del settembre 1955.e specialmente sugli eccellenti articoli di R. Longone su «I’Unità» tra i quali ha particolare valore Leggenda e realtà della «mafia calabrese», del 10 settembre 1955. Per un breve dibattito pubblicato dopo l’uscita dell’ edizione inglese del volume, cfr. La Calabre, a cura di Jean Meyriat, Paris 1960, pp. 213-I5.

mente di montagna -, si battono per ottenere quella considerazione, quel rispetto e quella dignità, altrimenti irraggiungibile da parte di nullatenenti e miserabili » (Longone). Cosi Nicola d’Agostino di Canolo, che poi diventò sindaco comunista del suo paese, viene descritto come un uomo che in gioventù, come si dice da queste parti, «si faceva rispettare». Naturalmente, egli era allora membro autorevole della Società. (Come tanti altri contadini comunisti, egli fu «convertito» in carcere).

Come abbiamo già visto, la Società riteneva doveroso aiutare non soltanto i propri membri ma anche tutti coloro che, secondo il costume locale, erano ingiustamente perseguitati dallo Stato, come ad esempio gli omicidi per vendetta di sangue.

Naturalmente essa aveva anche la tendenza a costituire, come la Mafia, un sistema parallelo di legalità, capace di far recuperare i beni rubati o di risolvere altri problemi in maniera molto più efficiente dell’apparato estraneo dello Stato. E, sempre al pari della Mafia e per motivi analoghi, l’Onorata Società tendeva a trasformarsi in un sistema di estorsione organizzata e di nuclei locali di potere, che potevano venire assoldati da parte di chiunque ambisse, per i propri fini personali, raggiungere una influenza locale.

L’opposizione politica cita casi di capi locali nei cui confronti vennero sospese le misure di polizia per il periodo elettorale perché potessero usare la loro influenza nella giusta direzione. Sono note le associazioni di tipo mafioso che mettono la loro influenza a servizio del miglior offerente – e cioè prevalentemente al servizio degli interessi degli agrari ed affaristi del luogo e dei partiti governativi.

Nella piana di Gioia Tauro, vecchio feudo di agrari (che i turisti attraversano in treno, recandosi in Sicilia), pare che funzionari e autorità locali ricorressero ampiamente agli squadristi – squadre armate fornite dalla Società – dal 1949-50 in poi, il che non deve meravigliare, dato che quell’annata registrò la punta massima delle agitazioni delle masse in Calabria per la riforma agraria.

Sembra quindi che la Società abbia potuto impadronirsi in larga misura delle leve locali tra datori di lavoro e lavoratori, il che costituisce una evoluzione di genere tipicamente mafioso 1.

Tale orientamento della Società non ha però carattere necessariamente generale, dato che, nonostante le apparenti caratteristiche strutturali di tipo gerarchico, sembra che ogni loggia locale della Società conservasse larga autonomia di azione e qualcuna tendesse addirittura a stringere alleanze con le sinistre.

La situazione viene ulteriormente complicata da rivalità private in seno alle logge e fra loggia e loggia, da vendette di sangue e da altre complicazioni tipiche dell’ambiente calabrese. Fra gli emigrati in Liguria o in Australia, la situazione della Società è ancora più oscura e talora si colora di sangue 2.

Tuttavia è certo che un processo di evoluzione dello stesso tipo della Mafia siciliana moderna, nella Società non si è verificato se non in misura limitata. Di conseguenza anche la Società è andata gradualmente sparendo in molte zone con l’affermarsi di moderni movimenti di sinistra. Non vi è stata una generale sua trasformazione in forza di conservazione politica.

A Gerace pare si sia praticamente dissolta; a Canolo – grazie all’influenza esercitata dal d’Agostino dopo la sua conversione -è diventata un mero orpello e l’appartenenza ad essa è quasi oggetto di ridicolo; nei paesi a tendenza di sinistra dove essa è riuscita a sopravvivere, non è – o cosi si dice – che una forma alquanto sonnacchiosa di massoneria locale. Ma – ed è questo il punto essenziale – in nessun luogo la Società, a quel che ne sappiamo, si è collettivamente trasformata in organizzazione di sinistra, mentre, in alcune zone, è diventata un gruppo di pressione di destra.

Ciò è perfettamente naturale. Come abbiamo visto, nel processo evolutivo della Mafia domina una tendenza nettamente opposta al movimento sociale, indirizzata, nell’i-

(1) FIUMANÒ-VILLARI, Politica e malavita cit., pp, 657-58.

(2) Per un’indagine parallela dei due tradizionali fenomeni calabresi, il ratto della sposa (cfr. cap, I) e l’Onorata Società, cfr. «La Nuova Stampa» del 17 novembre 1956, L’episodio avvenne a Bordighera. Quanto alla Società in Australia – fenomeno che i sociologhi australiani potrebbero utilmente approfondire – cfr. il caso di Rocco Calabrò, capo della Fibbia a Sinopoli ed emigrato da tre anni a Sydney, che fu ucciso nel 1955 nel suo paese di origine pare a seguito di un dissidio con la Società verificatosi n Sydney («Paese Sera» del 7 settembre 1955 e «Il Messaggero» del 6 settembre 1955). Il 20% dei sinopolitani sono emigrati in Australia.

potesi più benevola, verso il gruppo di pressione politica e, nell’ipotesi peggiore, verso il sistema criminale di estorsione organizzata. Numerose e profonde sono le ragioni per cui non è possibile costruire un movimento nazionale o sociale sulle fondamenta della Mafia tradizionale, se non a patto di una sua profonda trasformazione dall’interno.

Una prima ragione va ricercata nel fatto che la Mafia tende a rispecchiare la ripartizione non ufficiale del potere in una società oppressa: nobili e ricchi ne sono i padroni soltanto perché essi detengono il potere effettivo nella zona. Perciò, appena si verificano gravi fratture fra i detentori del potere e le masse – ad esempio con le agitazioni agrarie – è difficile che i movimenti nuovi possano inserirsi negli schemi della Mafia. D’altra parte, quando l’organizzazione contadina socialista o comunista conquista una quota sufficiente del potere locale, non ha più bisogno di molto aiuto da parte di organizzazioni di tipo mafioso.

La seconda ragione consiste nel fatto che gli obiettivi sociali dei movimenti di Mafia, al pari di quelli del banditismo, sono quasi sempre limitati, eccetto forse per quel che concerne l’aspirazione all’indipendenza nazionale. Ma anche sotto tale riguardo quei movimenti hanno più una funzione di implicita congiura a difesa della «antica maniera di vivere» contro la minaccia di leggi estranee, che la funzione di strumenti di effettiva indipendenza per l’affrancazione dal giogo straniero.

Nelle rivolte siciliane del XIX secolo l’iniziativa venne dai liberali della città e non dalla Mafia, i mafiosi si limitarono ad aggregarsi. In effetti la mafia, appunto in quanto fenomeno organizzativo antecedente all’avvento nelle masse di un minimo di coscienza politica e in dipendenza proprio dei suoi obiettivi limitati e di natura difensiva, ha tendenza a caratterizzarsi in senso riformista (per usare un termine anacronistico) piuttosto che rivoluzionario. Si accontenta della regolamentazione dei rapporti sociali esistenti e non aspira a una radicale loro trasformazione, Pertanto il sorgere di movimenti rivoluzionari determina l’indebolimento della Mafia.

L’ultima ragione deve vedersi nel fatto che essa tende a stabilità sociale poiché, nella propria incoerenza organizzativa ed ideologica, è di solito incapace di esprimere un apparato di forza fisica che non sia allo stesso tempo uno strumento di criminalità e di privato arricchimento. In altre parole tende inevitabilmente ad agire a mezzo di gangster, perché incapace ad esprimere dei rivoluzionari professionali. I gangster però accampano una ipoteca sulla proprietà privata, come i pirati sul libero commercio di cui sono parassiti.

Per tutte queste ragioni un movimento di tipo mafioso ha possibilità minime di trasformarsi in un movimento sociale moderno, se non attraverso la conversione individuale dei singoli mafiosi.

Ciò però non significa che movimenti essenzialmente rivoluzionari operanti in determinate condizioni storiche non possano esprimere un buon numero di regole di condotta e di istituzioni che richiamino quelle della Mafia.

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