Il 10 febbraio è il ‘Giorno del Ricordo’ per “conservare e rinnovare la memoria dei massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata. La tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Furono commessi atti atroci in tutta l’Istria, a Fiume e in Dalmazia, la violenza dei partigiani di Tito si era abbattuta sulla popolazione di lingua italiana senza distinzione.

Il numero delle vittime è compreso tra 5.000 e 11.000. Le persone italiane furono imprigionate, fucilate e gettate nelle cavità carsiche dell’Istria e della Dalmazia, poi conosciute come foibe, da partigiani comunisti di Tito.
Alla dinamica della guerra fra nazionalismi contrapposti: quello italiano e quello slavo, si aggiunse aggravandola, la dinamica del conflitto ideologico fra fascisti e comunisti, ulteriormente complicato dall’incrocio della lotta fra fascimo e antifascismo e comunismo e anticomunismo.
Nelle foibe venivano gettati non solo i cadaveri delle persone morte, ma anche persone ancora vive, semplicemente ferite. Molte altre persone invece sono state portate nei campi di concentramento jugoslavi.
Gli anni dal 1943 al 1947 videro svolgersi il drammatico esodo di 350 mila fiumani,
istriani e dalmati che vide il suo apice nel 1945, quando gli esuli si riversarono in Italia con tutti i mezzi possibili: vecchi piroscafi, macchine sgangherate, treni di fortuna, carri agricoli, barche, e persino a nuoto e a piedi.
Nel dopoguerra la vicenda delle foibe è stata a lungo trascurata, tanto che nel 2007, nel Giorno del ricordo delle foibe, celebrato il 10 febbraio, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha dichiarato: “Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio.
Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali”.
“La ferocia che si scatenò contro gli italiani in quelle zone non può essere derubricata sotto la voce di atti, comunque ignobili, di vendetta o sommaria giustizia contro i fascisti occupanti; il cui dominio era stato – sappiamo – intollerante e crudele per le popolazioni slave, le cui istanze autonomistiche e di tutela linguistica e culturale erano state per lunghi anni negate e represse.
Le sparizioni nelle foibe o dopo l’internamento nei campi di prigionia, le uccisioni, le torture commesse contro gli italiani in quelle zone, infatti, colpirono funzionari e militari, sacerdoti, intellettuali, impiegati e semplici cittadini che non avevano nulla da spartire con la dittatura di Mussolini.
E persino partigiani e antifascisti, la cui unica colpa era quella di essere italiani, di battersi o anche soltanto di aspirare a un futuro di democrazia e di libertà per loro e i loro figli, di ostacolare l’annessione di quei territori sotto la dittatura comunista.
Le foibe e l’esodo hanno rappresentato un trauma doloroso per la nascente Repubblica che si trovava ad affrontare l’eredità gravosa di un Paese uscito sconfitto dalla guerra.”(il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella)
Per essere gettati in foiba o fucilati non occorrevano “colpe”, morirono contadini o maestri, gerarchi fascisti o partigiani antifascisti, operai o studenti, ricchi industriali o bottegai, purché italiani.
“Si trattò del massacro voluto per cancellare una popolazione. Quella italiana, presente principalmente nella Dalmazia, accusata dalle squadre di Tito di aver assistito con indifferenza – e in molti casi con collaborazionismo – alla persecuzione che per anni i nazi-fascisti avevano condotto martoriando le popolazioni slave.
Finito il fascismo, la vendetta dei “titini” dilagò con esecuzioni sommarie, indiscriminate e atroci, che finirono per coinvolgere migliaia di persone innocenti, oppresse prima dal fascismo e poi dal comunismo.
Chi non morì, dovette scappare, patendo non solo le sofferenze dell’esodo, ma soprattutto il pregiudizio di aver appoggiato il fascismo. Questa “ombra” eclissò per anni la tragedia delle Foibe. E nel clima esasperato della guerra fredda arrivò alla rimozione. Ci volle la caduta del muro di Berlino e una lunga rielaborazione per riesumare non solo i corpi degli “infoibati”, ma la sofferenza immane di un’intera popolazione, costretta alla diaspora.
Ricordarci dei massacri delle Foibe è un gesto di giustizia. Un fiore posato su quella pesante lastra di dolore. Che finalmente è illuminata dalla memoria.” (Massimo Marnetto)
Gli eccidi avevano motivazioni etniche e politiche, con l’obiettivo di eliminare gli italiani per facilitare l’annessione dei territori alla Jugoslavia. Pulizia etnica che non può essere giustificata, né potrebbe esserlo, dalla legittima guerra di liberazione nazionale dal nazifascismo perché non si risolse solo contro gli invasori nazifascisti, ma contro tutte le persone di lingua italiana anche i civili che abitavano l’Istria e la Dalmazia da secoli con continuità documentata sin dal medioevo.
Una lunga storia di convivenza e di conflitti

“Nell’800, conquistata da Carlomagno la Croazia, e attratte nell’orbita dell’influenza carolina Venezia e l’Istria, anche la Dalmazia pare per un momento staccarsi dall’Impero d’Oriente. Ma Bisanzio si mostra ancora abbastanza ricca d’energie ed è troppo potente sul mare perché la Dalmazia le sfugga.
Nell’878 la Croazia torna a Bisanzio. Ma i Croati e i Narentani non possono essere indotti a rinunciare senza compenso alle loro gesta piratesche; per cui Basilio persuade le città dalmate navigatrici a versare agli Slavi, per amore di pace, la somma che sino allora veniva passata allo stratego.
La situazione, venuta formandosi durante il sec. X, è matura nel 1000, quando, invitato dai Dalmati, il doge Pietro II Orseolo salpa da Venezia con una formidabile flotta, sconfigge eroati e Narentani, ripulisce il mare dalla pirateria, riceve dai Dalmati tributi, omaggi e promesse di fedeltà e assume il titolo di doge di Dalmazia.”

“Le città dalmate cominciano a far parte per se stesse cercando di sottrarsi all’autorità dell’impero bizantino e si trovano d’accordo con Venezia, anch’essa interessata a rendere l’Adriatico un mare sicuro.
Nei comuni si svolge una vita ricca e potente che ha tante energie da irradiarsi anche tra i Croati: nel sec. XI, anche Zaravecchia (sl. Biograd) si rilatinizza e si dà costituzione comunale.
Per tutto ciò la stessa politica esterna dei comuni assume un’ impronta autonoma. I vincoli con Bisanzio, si allentano ancor più. I monasteri benedettini cassinesi, di cui la Dalmazia a partire dal 986 si va costellando, danno direttive ancor più nette alla vita locale, già orientatasi verso Roma.
E arriviamo al principio del Trecento, quando, indebolitosi il potere dei re d’Ungheria, ad esso si sostituisce in alcune parti la tirannia dei Subich le cui angherie determinano la dedizione a Venezia, salvi i diritti del re d’Ungheria, di Sebenico (1322), Traù (1322), Spalato (1327) e Nona (1328).
Lesina, Lissa e Brazza erano passate a Venezia sin dal 1278; Curzola infeudata ai Giorgi, patrizî veneziani, sin dal 1254.
Così, tranne Cattaro, che si sottometterà spontaneamente a Venezia nel 1419, Venezia riacquistò tutta la regione.
Si crea una comunità che partecipa in maniera attiva e vivace alla vita pubblica e alle istituzioni a prescindere da chi governava pro-tempore quei territori, legata naturalmente all’influenza di Venezia nel mare Adriatico, ma anche gelosa delle sue autonomie.

Fra tutte Trieste che per sottrarsi al dominio Veneziano, pur essendo popolata da una maggioranza di lingua italiana, nel 1382, si pone sotto la protezione del Duca d’Austria, che si impegnò a rispettare e proteggere l’integrità e le libertà civiche, anche se queste ultime furono ampiamente ridimensionate a partire dalla seconda metà del 1700.
il 17 ottobre 1797 fu firmato Il trattato di Campoformio (Campoformido), un concordato di pace tra l’Austria e la Francia (17 ott. 1797), che segnò la fine della Repubblica di Venezia. Voluto da Napoleone che cedette Venezia, l’Istria, la Dalmazia, le Bocche di Cattaro e le isole veneziane dell’Adriatico all’Austria. In cambio la Francia poté annettere le isole Ionie e i possessi già veneti dell’Albania, ma soprattutto vide riconosciuto l’assetto dato alle regioni conquistate in Italia. Il trattato pose fine alla millenaria Repubblica di Venezia e suscitò forti reazioni nei giacobini francesi e nei patrioti italiani.
“Il Trattato di Campoformio fu firmato a Villa Manin di Passariano di Codroipo, dimora estiva dell’ultimo Doge, Lodovico Manin, e dove aveva preso sede Napoleone. La villa si trovava non lontano da Campoformio (l’odierna Campoformido), alle porte di Udine, dove risiedeva il comando austriaco.
Gli Austriaci avevano accettato di scendere a patti di fronte alla minaccia di Napoleone, vincitore sul fronte italiano. Il territorio della Repubblica di Venezia, dove nel maggio si era costituito un governo rivoluzionario filo-francese, fu ceduto all’Austria, assieme all’Istria e alla Dalmazia; in cambio l’Austria riconosceva la Repubblica Cisalpina e cedeva dei territori lungo le rive del Reno. Con la fine dell’occupazione francese di Venezia, iniziata nel maggio del 1797, terminava anche l’esperienza del governo democratico.
Il Trattato provocò le proteste di molti patrioti, ostili alla logica della spartizione tra potenze, in base alla quale il destino di Venezia veniva deciso in modo assolutamente arbitrario, senza alcun coinvolgimento della popolazione. Per coloro che avevano partecipato alla Municipalità veneziana, l’organo del governo rivoluzionario, si trattò di un vero e proprio tradimento commesso dai Francesi che subordinavano l’affermazione degli ideali rivoluzionari ai loro disegni di conquista: decisa fu la presa di posizione di Ugo Foscolo con l’incipit famoso dell’Ortis: “Il sacrificio della patria nostra è consumato”, interpreta la posizione dei patrioti veneti, molti dei quali trovarono rifugio a Milano, dove si era costituita la Repubblica Cisalpina.”

Dal 1806 al 1809, la Dalmazia, con Ragusa, fa parte del Regno d’Italia ed è governata nel civile dal provveditore Vincenzo Dandolo, nel militare dal maresciallo Marmont.
Caduto Napoleone, l’Austria, dopo viva resistenza dei presidî francesi, rioccupa la Dalmazia tra il novembre 1813 e il giugno 1814. Poi s’inizia un periodo di piatta vita provinciale sino al 1848.

I moti rivoluzionari del 1848 scuotono sin dalle sue basi la monarchia degli Asburgo e trovano in Dalmazia un ambiente speciale perché non esiste la base di alcuna tradizione asburgica, essendo la Dalmazia parte del complesso austriaco appena dal 1813, insieme con le provincie lombardo-venete.
Ed è proprio in quel periodo di tempo che la borghesia italiana inizia i moti del Risorgimento nazionale.
I Dalmato-veneti si sentono italiani; sentono che devono rinunciare alle aspirazioni tradizionali venete; si persuadono che al disopra di esse esiste un netto e preciso indirizzo nazionale unitario e si fondono idealmente con la borghesia della penisola.
I Dalmato-slavi si trovano invece completamente disorientati. C’era poca possibilità d’intesa fra essi e le classi borghesi e contadine delle regioni italiane non venete.
Agli Italiani che abitavano l’istria e la Dalmazia non riusciva difficile, se ne avevano interesse, col pretesto della lingua diversa, differenziare il contadino slavo della Dalmazia e gli elementi slavi di recente assimilati dalla borghesia dalmatica.
D’altro canto il governo di Vienna sentiva che i suoi possessi italiani erano minacciati, quindi sentiva che bisognava trovare una formula per salvare quello che si poteva salvare.
Insomma, poiché faceva meno paura un eventuale moto nazionale slavo o illirico che i moti nazionali italiani, il governo di Vienna si persuase che, dando sviluppo a un movimento slavo in Dalmazia, in un certo qual modo poteva garantirsi una parte dell’eredità veneta.
Perciò fra il 1848 e il 1866 in Dalmazia sorgono due movimenti politici: il movimento annessionista e il movimento autonomista che, in quindici anni di rapida evoluzione e sotto l’influsso delle vicende della penisola, e di riflesso di quelle della monarchia asburgica, si trasformano in croatismo asburgico e irredentismo italiano.
Con lo scoppio della I Guerra Mondiale, la lotta nazionale in Dalmazia, diventata zona di guerra, si arresta. L’autorità militare interna o confina tutte le pèrsone sospette, Slavi e Italiani.” (Treccani)
Al termine della Prima guerra mondiale (1914-18), l’Italia che durante le trattative per il Patto di Londra aveva richiesto parte della Dalmazia chiese anche di annettere al territorio italiano Fiume situata in una regione prevalentemente croata ma reclamata da Roma in quanto abitata in maggioranza da italofoni.
Il 29 ottobre 1918 il Consiglio nazionale fiumano proclamò l’annessione all’Italia. Incidenti fra la popolazione e le truppe interalleate d’occupazione (luglio 1919) portarono la Conferenza di pace di Parigi del 1919 a deliberare lo scioglimento del Consiglio e della Legione volontari fiumani, e l’allontanamento delle truppe italiane.
Tra queste ultime, i Granatieri di Sardegna si rivolsero a D’Annunzio, chiedendogli di mettersi alla loro testa e di occupare militarmente la città. Assicuratosi il sostegno di Benito Mussolini, D’Annunzio e i suoi procedettero all’occupazione il 12 sett. 1919, proclamando unilateralmente l’annessione all’Italia.
A seguito delle trattative di pace del 1919, nel 1920 con il trattato di Rapallo l’Italia ottenne le terre “irredente”: Trento, Trieste e l’Istria, mentre fu assegnata al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, tutta la Dalmazia, eccetto Zara e Lagosta.

Il 6 aprile 1941 iniziò l’invasione della Jugoslavia. Adolf Hitler, era interessato ad organizzare una grande campagna militare nei Balcani per aiutare l’alleato Benito Mussolini nell’invasione italiana della Grecia e consolidare la situazione strategica della Germania nazista, decise di dare inizio all’invasione della Jugoslavia.
L’Italia partecipò alle fasi dell’invasione partendo dalle proprie basi in Venezia Giulia ed Istria, da Zara e dall’Albania. Con l’invasione del 1941 e l’annessione di ampie fette di territorio jugoslavo, della Dalmazia in particolare, il regime fascista ottiene un significativo successo politico e propagandistico.
Le forze d’occupazione italiane reagiscono subito con estrema durezza ai primi fenomeni di resistenza che avvengono già poche settimane dopo la resa dell’esercito jugoslavo, e cioè nell’estate del 1941. La situazione presenta delle criticità specifiche date dalla presenza di più gruppi etnici nel territorio. Con la guerra civile sviluppatasi a seguito dell’invasione da parte delle truppe tedesche, italiane e ungheresi l’intera regione precipita in una spirale di violenza.
La Jugoslavia viene smembrata e i suoi territori spartiti tra i partecipanti all’aggressione, all’Italia vengono attribuite la Slovenia meridionale, dove il 3 maggio fu istituita la provincia di Lubiana, e quasi tutta la costa dalmata.

Tutti i territori che erano stati sottratti mediante il trattato del Trianon sul finire della Prima guerra mondiale vengono annessi nuovamente al Regno d’Ungheria. Inoltre, vengono creati due stati indipendenti: la Nezavisna Država Hrvaska dei croati ustascia e il Montenegro sotto il protettorato dell’Italia.
L’occupazione scatenò una serie di conflitti che coinvolsero le milizie nazifasciste croate (ustaša), quelle collaborazioniste serbe (četnici) e slovene (domobranci), e la resistenza antifascista jugoslava.
Nell’ambito della repressione anti-partigiana, furono attuate politiche deliberatamente persecutorie verso la popolazione civile. Le truppe italiane furono responsabili di rappresaglie, devastazioni di interi villaggi, esecuzioni sommarie, e della creazione di campi di concentramento tra cui il tristemente famoso il campo di concentramento nell’isola di Arbe/Rab, in cui tra il 1942 e il 1943 transitarono migliaia di prigionieri di cui molti morirono per fame, malattie e stenti.
In Montenegro l’apice della repressione si raggiunge immediatamente dopo l’insurrezione del 13 luglio 1941, quando l’esercito italiano impiega fino a 70mila uomini in quella che si caratterizza come una vera e propria spedizione punitiva.
In quelle stesse settimane nelle città della Dalmazia cominciano a operare i tribunali speciali, che condannano a morte diversi attivisti comunisti.
In Slovenia la svolta avviene nell’inverno del 1942, quando i comandi militari ricevono l’autorizzazione a operare senza più l’intromissione delle autorità civili, che dovrebbero amministrare un territorio ufficialmente annesso all’Italia.
L ’amministrazione italiana, durò sino all’8 settembre 1943. Le truppe italiane lasciate senza comandi non sanno più contro quale nemico lottare e si rendono conto di quanto la patria sia ormai lontana.
Per questi motivi molti militari preferiscono rifugiarsi sulle montagne e unirsi ai partigiani rischiando però di essere uccisi dagli stessi e dalla popolazione locale come vendetta per le azioni subite durante la feroce occupazione.
Già nell’autunno del 1943, si intrecciarono giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana anche dai luoghi di permanenza storici. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”.
I partigiani sloveni avanzano rivendicazioni irredentistiche antitaliane verso Trieste, Gorizia e Fiume e irrompono nei territori contesi mettendo in atto le prime azioni violente di vendetta e repressione che, anche questa volta, colpiscono anche la popolazione civile innocente.
Il movimento partigiano cresce fino a divenire inarrestabile, nonostante le sconfitte del Sangiaccato Tito persegue l’obiettivo di tornare in Serbia (che per tutta la guerra era stata il centro di potere dei cetnici e il nucleo dell’occupazione nazista) e liberare l’intero territorio dalle forze tedesche che però continuano per tutto l’inverno (’44-’45) a difendere le loro posizioni in Jugoslavia.
La fase finale delle operazioni ha inizio il 20 marzo del 1945 quando l’Esercito popolare ormai denominato “Esercito jugoslavo” libera dopo una dura battaglia la città di Sarajevo e i tedeschi iniziano la ritirata.
Il Terzo Reich si arrende ufficialmente agli Alleati il 7 maggio a Reims e l’8 a Berlino ma la guerra per l’affermarsi della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia i combattimenti non sono ancora conclusi.
Il 10 maggio del 1945 i partigiani liberarono Zagabria e la guerra in Jugoslavia trovò la sua fine, anche se con una settimana di ritardo rispetto al resto d’Europa.
I nazisti tennero Trieste fino al 1º maggio 1945, quando, dopo intensi bombardamenti alleati, i partigiani jugoslavi del generale Dušan Kveder riuscirono ad occupare la città, battendo sul tempo i neozelandesi del generale Bernard Freyberg che, appoggiati dai partigiani della Divisione Osoppo, si erano inutilmente impegnati nella “corsa per Trieste”.
Kveder proclamò l’annessione di Trieste e dei territori limitrofi alla nascente Federazione Jugoslava quale sua settima repubblica autonoma.
L’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945 stabilì la linea Morgan, come nuova linea di demarcazione ottenendo il 12 giugno il ritiro dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia e il passaggio di Trieste e Gorizia, nonché (20 giugno) di Pola, a un “Governo militare alleato”.

Il 10 febbraio del 1947 fu firmato a Parigi del Trattato di pace tra l’Italia e le nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale.
Il trattato di pace dell’Italia istituì il Territorio Libero di Trieste (TLT), costituito dal litorale triestino e dalla parte nordoccidentale dell’Istria, provvisoriamente diviso in una Zona A amministrata dal Governo militare alleato e in una Zona B amministrata dall’esercito jugoslavo.

Il 5 ottobre 1954 fu sottoscritto il Memorandum d’intesa di Londra fra i governi d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti e della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia concernente il regime di amministrazione provvisoria del Territorio Libero di Trieste. La Zona A con la città di Trieste e il suo porto franco internazionale passarono dall’amministrazione militare alleata all’amministrazione civile italiana, mentre la Zona B passò dall’amministrazione militare all’amministrazione civile jugoslava.
Il 10 novembre 1975 viene sottoscritto il trattato di Osimo tra i ministri degli affari esteri di Jugoslavia e Italia, con cui si fissarono in maniera definitiva i confini tra i due Paesi nel Territorio Libero di Trieste a seguito del Memorandum di Londra del 1954.

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