10-03-2023 – di: Domenico Gallo
Il 24 febbraio del 2022 si è fatto buio all’improvviso, le tenebre sono calate sulla vita dei popoli europei. Una guerra feroce e catastrofica è scoppiata sul confine orientale dell’Europa, travolgendo i destini di milioni di persone e riverberando i suoi effetti nefasti in tutto il mondo.
Dopo un anno di combattimenti ininterrotti, senza neanche un giorno di tregua, non si intravede nessuna soluzione. Mentre si riforniscono le retrovie di armi di ogni tipo e si ammassano le truppe, resta immanente il rischio di un’escalation incontrollata in fondo alla quale c’è l’olocausto nucleare. Come siamo giunti a tutto questo, com’è stato possibile che i sogni dell’89 si siano rovesciati nell’incubo che stiamo vivendo?
Con la caduta del muro di Berlino, un’intera generazione salutò con gioia la fine della guerra fredda. L’epoca dei muri, del confronto brutale fondato sulla forza, della corsa agli armamenti, dell’equilibrio del terrore franava sotto i nostri occhi sotto l’effetto del terremoto della storia.
Al suo posto nasceva la speranza di una nuova epoca in cui si potesse avverare la profezia della Carta della Nazioni Unite, di un’umanità liberata per sempre dal flagello della guerra, dove le relazioni internazionali e interne agli Stati fossero regolate dal diritto e dalla giustizia, dove l’architettura della violenza venisse definitivamente smantellata e le spade rimesse nel fodero.
I giovani di allora sognarono un avvenire colmo di speranza. In quell’epoca il treno della Storia era stato messo su un binario che correva verso un avvenire luminoso. Purtroppo quell’avvenire che ci avevano promesso con la caduta del muro di Berlino è tramontato nell’arco di una generazione. Come recita la dolente canzone di Luigi Tenco, «i sogni sono solo sogni e l’avvenire è ormai quasi passato».
In realtà quell’avvenire è passato del tutto, ma ciò non è stato frutto del naturale svolgimento delle vicende umane, bensì di scelte precise degli architetti dell’ordine mondiale che ci hanno derubato dell’avvenire e ci hanno fatto precipitare in questa miserabile condizione di guerra, dalla quale non riusciamo a uscire.
Dobbiamo fare qualche passo indietro. All’inizio degli anni 90, la guerra fredda è finita, l’Unione sovietica ha restituito l’autodeterminazione ai popoli dell’Est europeo, la Germania si è riunificata, il Patto di Varsavia è stato disciolto, gli euromissili sono stati smantellati, mentre vengono firmati storici accordi sul disarmo.
Questo clima di pacificazione durerà ben poco. Verrà interrotto dalla guerra del Golfo nel 1991, prima prova muscolare dell’impero sopravvissuto alla guerra fredda. Ma le vere scelte che cambiano il clima geopolitico vengono effettuate nel corso del 1997 dall’amministrazione Clinton che, stracciando gli impegni assunti con Gorbaciov, decide di estendere la NATO a Est, cominciando a inglobare Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.
Si tratta della scelta politicamente più impegnativa che sia stata fatta dall’Amministrazione USA, dopo quella del contenimento dell’URSS, che ha dato origine alla prima guerra fredda. Contro questa scelta insorsero proprio coloro che la guerra fredda l’avevano teorizzata e praticata. In un articolo sul New York Times del 7 febbraio 1997 il diplomatico americano George Kennan, uno dei teorici della guerra fredda, lanciò un grido d’allarme, osservando: «la decisione di espandere la NATO sarebbe il più grave errore dell’epoca del dopo guerra fredda. Una simile decisione avrebbe l’effetto di infiammare le tendenze nazionalistiche antioccidentali e militariste nell’opinione pubblica russa, pregiudicherebbe lo sviluppo della democrazia in Russia, restaurerebbe l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est ovest, spingerebbe la politica estera russa in direzioni a noi decisamente non favorevoli».
Clinton non ascoltò le proteste dei protagonisti della guerra fredda, fra cui lo stesso Henry Kissinger e andò avanti nel suo progetto. Nel summit che si svolse a Madrid l’8 e il 9 luglio 1997, la NATO assunse la decisione di estendersi a Est, cominciando a includere Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, che furono formalmente ammesse nel 1999.
Della gravità e dell’importanza geostrategica di questa scelta, nessuna forza politica si rese conto e nessuno si oppose. In verità il grido d’allarme sollevato da George Kennan fu raccolto in Italia, in un isolato articolo pubblicato dal manifesto il 24 giugno 1998 (D. Gallo e M. Dinucci, La nuova cortina di ferro). L’articolo sottolineava che dall’allargamento a Est della NATO derivava il rischio di un’altra guerra fredda e osservava:
È una decisione la cui portata è paragonabile, nella mutata situazione internazionale, a quella degli accordi di Yalta. […] Nessuno può dire quali saranno in futuro le reazioni ed eventuali contromisure della Russia di fronte all’espansione della Nato verso i suoi confini. Sul piano geopolitico, è di tutta evidenza che il fatto di far avanzare le basi della Nato, portandole ai confini della Russia, costituisce oggettivamente un incremento della minaccia in senso tecnico-militare. Anche della minaccia nucleare. […] Si pongono in questo modo le premesse per riesumare il fantasma della guerra fredda, fondata questa volta non più sulla competizione politico-ideologica fra i due blocchi, ma su un confronto meramente nazionalistico, come tale meno razionale e più imprevedibile. Cresce, pertanto, la possibilità che la marcia a Est della Nato crei un nuovo fronte di tensione tra Est e Ovest in cui l’Europa si troverebbe ancora una volta coinvolta. Insomma, di nuovo un fantasma si aggira per l’Europa.
All’epoca non si poteva prevedere la guerra che sarebbe scoppiata 24 anni dopo, però non era difficile comprendere che la nuova guerra fredda che si stava impiantando sarebbe stata molto più pericolosa della prima perché avrebbe attizzato derive nazionalistiche molto più irrazionali del confronto ideologico che animava, ma frenava anche, la prima guerra fredda. Tuttavia, una scelta, così densa di incognite, è passata inosservata, la politica si è voltata dall’altra parte e nessuno si è accorto che si stava impiantando nel cuore dell’Europa una nuova cortina di ferro.
Il passo successivo è stato quello di cambiare la missione della NATO, che ha “superato” la sua natura di patto difensivo e si è trasformata in un formidabile strumento militare del tutto svincolato dal rispetto della Carta dell’ONU.
Questa nuova missione è stata sperimentata con l’aggressione alla Jugoslavia: settantotto giorni di bombardamenti ininterrotti, volti a smembrare l’integrità territoriale della Jugoslavia con la separazione del Kosovo.
Nel summit per il cinquantenario della NATO a Washington il 23 e 24 aprile 1999, la NATO legittimava questo suo nuovo volto, dichiarandosi competente a compiere operazioni militari al di fuori dell’art. 5 del Patto Atlantico, cioè si riappropriava del diritto di guerra. Nel disinteresse generale è proseguita l’espansione della NATO a Est, che ha inglobato anche quelle Repubbliche che una volta facevano parte dell’Unione Sovietica (Estonia, Lettonia e Lituania).
Con il vertice di Bucarest del 2 aprile 2008, la NATO ha lanciato un ulteriore guanto di sfida alla Russia, dichiarando la disponibilità ad inglobare anche Ucraina e Georgia. Dopo un lavoro di ri-costruzione del nemico durato oltre venti anni, alla fine il nemico si è materializzato e la parola è passata alle armi.
In realtà, con la scelta che gli USA hanno imposto alla NATO nel luglio del 1997, il treno della Storia è stato deviato su un altro binario, verso un percorso che ci ha sempre più velocemente allontanato dall’orizzonte del 1989 e alla fine è arrivato al capolinea il 24 febbraio del 2022, data che simbolicamente rappresenta l’evento opposto e contrario a quello del 9 novembre 1989. Per uscire da questo disastro bisogna cambiare il capotreno e riportare il treno della Storia sul binario che stava percorrendo nel 1990.
LA TRUFFA DEL 1995: PERCHÉ VINCE PUTIN
DI PINO ARLACCH ilfattoquotidiano.it
21 marzo 2024
ALLE ORIGINI DEL POTERE – La frode dei “prestiti contro azioni” fu il vizio fondante del nuovo capitalismo russo, che consolidò lo strapotere di un’oligarchia politico-mafiosa che l’ex ufficiale del Kgb spazzò via Putin ha di nuovo vinto le elezioni, e il suo successo sembra essere un enigma per molti commentatori. Ho conosciuto e visitato più volte la Russia postcomunista, quella degli anni Novanta.
La Russia di Eltsin: uno Stato in agonia i cui massimi architetti e beneficiari sono stati i governi occidentali associati agli oligarchi stile Khodorkovsky e Berezovsky.
Uno Stato in eutanasia, amorevolmente assistito dalla finanza occidentale, che aveva colto l’occasione della caduta del comunismo per costruirci sopra una montagna di soldi. Sono state le banche europee e americane che hanno ricettato i danari degli oligarchi contribuendo a portare un grande Paese sull’orlo del fallimento.
L’élite criminale più vicina agli oligarchi amici di Eltsin era quella dei boss di Cosa Nostra. Stessa ferocia, stessa protervia politica mascherata, nei russi, da un grado di ricchezza, istruzione e status sociale di gran lunga superiori. Gli ex caprai di Corleone non hanno mai neanche sognato i livelli di opulenza e sofisticazione dei magnati criminali russi.
Il capo della mafia russa era Boris Berezovsky, quello che veniva intervistato nei panni di un rifugiato politico in Inghilterra. Un uomo capace di ordinare un assassinio al mattino, e di andare poi a cena con un George Soros determinato a redimerlo. Berezovsky era un matematico, membro dell’Accademia russa delle scienze, e lo stesso Khodorkovsky era un importante dirigente di partito.
Gli altri boss erano tutti personaggi noti al grande pubblico perché parlamentari, imprenditori, sindaci, proprietari di giornali e televisioni. Senza questo livello intellettuale e politico, l’oligarchia criminale russa non avrebbe potuto escogitare quella che è a tutt’oggi la più grande frode della storia. Nata da una alleanza tra i “magnifici 7” stipulata a Davos durante il World Forum per sostenere Eltsin alle elezioni, questa truffa ha consegnato nelle loro mani quasi metà della ricchezza della Russia.
Il maxi-imbroglio venne chiamato “prestiti contro azioni” e funzionò così. Alla fine del 1995, il governo russo, invece di chiedere prestiti alla Banca centrale, si rivolse alle banche degli oligarchi. Come garanzia per il credito concesso, queste banche ricevettero in custodia temporanea i pacchetti azionari di maggioranza delle più grandi imprese del Paese.
Un anno dopo, proprio per consentire agli oligarchi di tenersi le azioni, il governo decise di non restituire i prestiti. Così Berezovsky e i suoi, dopo aver prestato 110 milioni di dollari, si ritrovarono in mano il 51% di un’azienda, la Sibneft, che valeva 5 miliardi. Il gruppo Menatep, guidato da Khodorkovsky, pagò 160 milioni per ottenere il controllo della Lukoil, una compagnia petrolifera che valeva più di 6 miliardi di dollari. La Banca di un altro amico degli amici, Potanin, spese 250 milioni di dollari per impadronirsi della Norilsk Nichel, leader mondiale della produzione di metalli, il cui valore si aggirava sui 2 miliardi.
La frode dei “prestiti contro azioni” fu il vizio fondante del nuovo capitalismo russo. Essa consolidò lo strapotere di una oligarchia politico-mafiosa che ha generato il più grande disastro sofferto dalla Russia dopo l’invasione nazista del 1941. Il Pil del Paese si dimezzò in pochi anni. I risparmi di tutta la popolazione evaporarono a causa della svalutazione selvaggia del rublo.
Negli anni Novanta la povertà passò dal 2 al 40% della popolazione. L’età media si abbassò di cinque anni a causa del ritorno di malattie scomparse. Per lunghi periodi lo Stato non fu in grado di pagare pensioni e stipendi, mentre nel Paese scorrazzavano bande di delinquenti di ogni risma.
La plutocrazia fiorita sotto Eltsin, tuttavia, non era il capitalismo primitivo che precede quello pulito. Era un sistema di potere senza futuro, che per sopravvivere doveva continuare a rubare e corrompere. Il suo tallone d’Achille era l’assenza di una solida protezione legale.
Il timore di venire espropriati da un governo non amico, che avrebbe potuto dichiarare illegittime le privatizzazioni e le appropriazioni fasulle, e la paura degli oligarchi di essere a loro volta derubati da altri ladri, ebbero due conseguenze. In primo luogo spinsero a portare il malloppo fuori dalla Russia. E fin qui tutto bene, perché oltreconfine c’erano spalancate le grandi fauci delle banche svizzere, inglesi e americane ben liete di riciclare i loro beni.
Ma i problemi nacquero nel momento in cui i mafiosi russi, per garantirsi l’impunità, furono costretti a perpetuare il loro patto scellerato con la politica. Nel 1999 era arrivato al potere un uomo dei servizi segreti, gradito sia a Eltsin che agli stessi oligarchi, e da loro considerato uno dei tanti primi ministri da sostituire, all’occorrenza, dopo un paio di mesi. Ricordo bene il mio primo incontro, da dirigente Onu, con un Putin appena nominato e preoccupato di essere percepito come una stella filante.
Ma Vladimir Putin aveva una particolarità. Dietro le sue spalle c’erano anche quei pezzi del Kgb che non erano confluiti nel calderone criminale della Russia in via di dissoluzione: pezzi di uno Stato allo sbando diventati marginali, ma ancora in vita, e comunque depositari di un senso della nazione profondamente sentito dai cittadini russi.
Facendo leva su queste zattere alla deriva, e sull’immenso risentimento collettivo contro Eltsin e i boss della mafia, Putin prese rapidamente le distanze dai suoi sostenitori. Dopo pochi mesi di governo, egli fu in grado di mettere gli oligarchi davanti a un’alternativa: il rientro nei ranghi del potere finanziario, senza alcuna pretesa di comando sulla politica, in cambio della rinuncia del governo a recuperare il maltolto delle privatizzazioni e delle frodi, oppure la guerra totale, con rinazionalizzazione dei beni pubblici razziati e con la fine dell’impunità per i crimini commessi dai capibastone (stragi, furti, truffe, estorsioni, evasioni fiscali in abbondanza).
Furono avviati anche gli opportuni contatti con il Programma che ho diretto alle Nazioni Unite, e che aveva appena lanciato un’iniziativa per la confisca, per conto dei governi danneggiati, dei beni di provenienza illecita riciclati nei centri finanziari del pianeta.
Di fronte alla proposta di Putin, il fronte mafioso si spaccò. Alcuni oligarchi l’accettarono. Altri la irrisero, compiendo così il fatale errore di sottovalutare la forza dell’ex colonnello del Kgb, nel frattempo diventato presidente della Federazione russa.
Per evitare vari mandati di cattura, Berezovsky si rifugiò nel Regno Unito, da dove inizio a finanziare attività antirusse con il beneplacito dei servizi di sicurezza di Sua Maestà. Khodorkovsky pensò invece di sfidare Putin politicamente, finanziando partiti ostili a quest’ultimo, nella speranza di rovesciarlo. Andò male a entrambi. Berezovsky finì suicida. Khodorkovsky finì in carcere per l’assassinio di un sindaco che aveva osato imporre alla sua azienda di pagare le tasse, e ne uscì dieci anni dopo.
Nei decenni successivi, Putin ha ricostruito lo Stato e ora sta vincendo, per giunta, una guerra contro l’Occidente che ha ulteriormente accresciuto la sua popolarità. La Russia di oggi resta comunque piena di problemi, ma non deve temere più per la propria sopravvivenza come Stato e come Nazione. E anche Putin, ovviamente, ha difetti e problemi di non poco conto. Ma qui si trattava di rivelare il segreto (di Pulcinella) dei consensi a Vladimir Putin.
La guerra e l’Europa suicidata dagli Usa
PINO ARLACCHI – ilfattoquotidiano.it 4 MAGGIO 2024
IN UCRAINA PER PROCURA – “È pericoloso essere nemici dell’America, fatale esserle amici” diceva Kissinger. La nostra rottura con la Russia ha fatto degli Stati Uniti il maggior fornitore europeo di gas e petrolio. Imponendoci la stagnazione
Nessun Paese ha mai tratto profitto da una guerra prolungata (Sun Tsu, V secolo a. C.)
Diceva Henry Kissinger che essere nemici degli Stati Uniti può essere pericoloso, ma esserne amici è fatale.
E nel caso dell’Europa odierna la fatalità, il “fattore Kissinger”, consiste nel suicidio economico impostole dagli Stati Uniti e culminato con la guerra in Ucraina, ma preparato e istigato da lungo tempo. La vocazione autodistruttiva del nostro continente è stata preconizzata da Nietzsche due secoli fa con il concetto di “nichilismo europeo”.
La sua prova generale sono state le due guerre mondiali del Novecento, e il percorso verso la soluzione finale è iniziato con il vassallaggio verso gli Usa instaurato dopo il 1945. La sudditanza dell’Europa non è stata lineare. Si è dipanata in fasi alterne, con sussulti di indipendenza durante i quali il Vecchio continente ha reclamato la sua sovranità.
Il più importante sobbalzo ha prodotto la nascita dell’Unione europea e di una valuta, l’euro, potenzialmente alternativa al dollaro. Ma si è poi caduti sempre più in basso, fino alla corrente fase terminale.
La rottura con la Russia del 2022, con la guerra in Ucraina, capovolge il cammino verso Est dell’Unione europea e vanifica la formula del suo capitalismo. Questa rottura comporta tre conseguenze letali, destinate ad aggravarsi nei prossimi anni salvo reazioni dettate dall’istinto di sopravvivenza. Il primo effetto è la prosecuzione della stagnazione di lungo periodo del capitalismo europeo iniziata negli anni 70.
Le previsioni del Fondo monetario parlano chiaro: il Pil dell’Unione resterà vicino allo zero per almeno tre anni, in controtendenza rispetto a quello degli Usa, della Russia e del resto del mondo. Lo stop è dovuto in massima parte alle sanzioni contro il petrolio e il gas che l’Europa acquistava a basso prezzo dalla Russia prima del 2022.
Petrolio e gas che dopo lo scoppio della guerra vengono acquistati dagli Usa a prezzi fino a 4-5 volte superiori. Nessuno parla dei veri termini della questione dei rifornimenti di energia. Troverete centinaia di articoli su quanto siamo stati bravi a ridurre nel giro di un anno le importazioni di gas dalla Russia, senza che quasi alcuno di essi parli dei folli prezzi della bolletta energetica pagata ora agli Stati Uniti. Gli Usa hanno spinto gli alleati europei verso sanzioni estreme contro Mosca.
Dopo poche settimane dall’inizio delle ostilità hanno pressato l’Ucraina a combattere invece di concludere un accordo già quasi negoziato. E hanno completato l’opera distruggendo il gasdotto Nord Stream nel settembre 2022: tutto alla luce del sole, dopo che Biden aveva avvertito gli alleati che quel gasdotto era condannato. Un atto di guerra contro la Germania ingoiato dalla sua élite come se nulla fosse.
È con questi metodi che gli Stati Uniti si sono assicurati il primo posto tra gli esportatori di gas liquefatto verso l’Europa e verso il mondo. L’Europa è divenuta, inoltre, la prima destinazione del loro petrolio: 1,8 milioni di barili al giorno contro 1,7 verso l’Asia e l’Oceania. Un colpo “alla Kissinger” contro gli alleati d’oltreatlantico che il centro Bruegel ha valutato costare quasi un punto e mezzo del Pil dell’Unione europea.
Un colpo che è il costo più grande della guerra Nato contro la Russia. Sommato alle spese in armamenti e agli altri oneri della belligeranza, siamo intorno – sempre secondo Bruegel – a 316 miliardi di euro, pari al 2% del Pil dell’Unione nel 2022. Cifra aumentata nel 2023 e che corrisponde, guarda caso, alla differenza tra il +2,4 del Pil Usa e il +0,4 dell’Unione.
Il tutto tramite contratti-capestro firmati con gli Usa dalla Von der Leyen e da vari governi europei che proteggono lo Zio Sam da eventuali rinsavimenti della controparte tramite scadenze pluriquinquennali. L’aumento dei prezzi dell’energia, inoltre, è responsabile del 40% dell’aumento dell’inflazione in Europa. E un altro 40% è dovuto ai superprofitti degli importatori europei di gas.
Non ci si deve meravigliare, allora, se Politico.eu raccoglie gli sfoghi di alti dirigenti di Bruxelles “furiosi con l’Amministrazione Biden che sta accumulando una fortuna con la guerra a spese dei Paesi europei. Gli Stati Uniti sono il Paese che sta approfittando di più dalla guerra perché vendono più gas a prezzi più alti, e perché vendono più armi” (24.11.2022).
Ma la storia del nichilismo europeo non si ferma qui. Il secondo elemento letale è la secca perdita di competitività delle industrie europee rispetto a quelle americane causata dall’impennata dei prezzi dell’energia.
Non c’è industria manifatturiera nostrana che possa reggere un costo dell’energia 4 volte maggiore di quello sostenuto dalla concorrenza. Non troverete cenno al “fattore Kissinger” nei rapporti angosciati e codardi di Draghi e di Letta sul futuro del sistema Europa. Il Paese più bastonato (o meglio, auto-bastonato) è stato la Germania, che sta assistendo alla distruzione della sua base industriale e alla fuga di centinaia delle sue imprese verso gli Stati Uniti.
Attratte, queste ultime, anche dagli incentivi dell’Inflation Reduction Act. Un mix di misure di favore equivalenti ai famigerati “aiuti di Stato” di Bruxelles che Biden sta distribuendo a piene mani agli “amici” d’oltreatlantico per far trasferire negli Usa pezzi interi del loro apparato produttivo. La mitica Germania è diventata un Paese in via di de-industrializzazione nonché la nazione con la peggiore performance tra tutte le economie avanzate: Pil a -0,3% nel 2023-24.
La terza pozione letale che deve trangugiare l’Europa è la fine del suo modello di crescita degli ultimi trenta anni, basato sulla Russia e sulla Cina. È stato proprio Josep Borrell a dichiarare candidamente agli ambasciatori Ue, nell’ottobre 2022, che “la nostra prosperità si è basata sulla Cina e sulla Russia: energia e mercato. Energia a basso costo dalla Russia e accesso al mercato cinese per importazioni, esportazioni, investimenti e beni di consumo a basso prezzo… Quel mondo non c’è più”.
Il tramonto di quella formula di crescita ha spinto ciò che resta del capitalismo europeo in un vicolo cieco. La Russia ha reagito allo scontro con l’Europa accelerando la sua integrazione in uno spazio economico asiatico sempre più vincente. In soli due anni il commercio della Russia con l’Asia è passato dal 26 al 71%.
In questo spazio Cina e India diventano ancora più competitive rispetto a Europa e Stati Uniti grazie allo sconto sui prezzi degli idrocarburi importati adesso dalla Russia. Uno spazio divenuto, inoltre, più sicuro perché le transazioni tra le potenze maggiori dell’Asia avvengono ora tramite le loro valute nazionali invece che con i dollari.
C’è qualcuno in grado di affermare, allora, che esista un modello di crescita del capitalismo europeo alternativo a quello appena distrutto dal “fattore Kissinger”? Potranno mai i balbettii neoliberali su “più mercato” e “più Europa” sostituire una credibile nuova narrativa sul posto dell’Europa nell’ordine mondiale post-americano e multipolare emerso ormai nitidamente?