“LA SQUADRA DI RUGBY CHE FU ‘DESAPARECIDA’
“Mar del Plata” di Claudio Fava, ambientato nell’Argentina della dittatura, racconta la storia dei giocatori spariti, annientati dal capriccio e dal livore dei militari.L’autore non ha mai giocato a rugby, ma ne ha colto l’essenza: uno sport che, una volta scesi in campo, non ci si può più nascondere.
IL RIMBALZO sghembo e bislungo della palla ovale pare imprevedibile, invece no. La traiettoria è la stessa. A Catania come a Buenos Aires, tra le vedove di via d’Amelio e le madri di Plaza de Mayo. Dove bande di carogne regolano in un certo modo i propri conti con i dissidenti, con quelli che la pensano storta, fuori dal coro. Cancellano i nomi dalla vita e dal lutto, desaparecidos, senza nemmeno il diritto di portarsi la morte addosso. Perché Videla e Santapaola si rassomigliano, e si rassomigliano anche le loro vittime.
E allora valeva la pena raccontare la vera storia della squadra di rugby di Mar del Plata, un gruppo di ragazzi che nell’Argentina alla fine degli anni Settanta – la dittatura dei colonnelli: pensieri malati, cupo senso del potere, l’avidità di pochi – rinunciò a trovare rifugio in Francia per poter continuare a giocare il campionato. Fino alla fine. La stessa fine dei giovani agenti di Paolo Borsellino, che dissero di no alle ferie per poter scortare il loro giudice. Lo stesso rimbalzo, preciso e crudele.
“Una storia che mi è venuta incontro quasi per caso, molti anni dopo”, spiega Claudio Fava, autore di Mar del Plata (add editore). “Lessi gli articoli di un giornalista di razza, Gustavo Veiga, che aveva ritrovato l’ultimo superstite di quella squadra, annientata dal capriccio e dal livore dei militari. Essere gli ultimi, sopravvivere al male, è sempre un peso insopportabile, il segno di una colpa che non esiste ma che ti covi dentro come un’ulcera. Ho provato a riannodare fili invisibili che legano vite lontane tra di loro. Cose accadute laggiù e qui, in Italia, dove un’altra guerra e un altro nemico che non facevano prigionieri s’erano portati via, assieme a tanti altri, anche mio padre”.
A Buenos Aires per primo tocca a Javier, ripescato dalle acque del Rio della Plata con le mani legate dietro la schiena da due giri di fil di ferro. Lo chiamavano il Mono, la scimmia, per via di quelle braccia lunghe e nodose con cui pareva arrampicarsi in aria ogni volta che c’era una touche.
Il Turco e Mariano li ritrovano dentro un’auto qualunque ai margini della Carretera Norte, con un buco nella nuca grosso come una noce. Poi tocca agli altri: Otilio, trequarti alto e largo come un armadio; Gustavo, sedici anni, leggero come una crosta di pane. Ma la squadra non si arrende. La squadra gioca – tutti con un calzino nero legato al braccio – , gioca ancora con più voglia di combattere, di urlare la propria rabbia, di vivere. E vince, e i minuti di silenzio prima delle partite diventano infiniti. Fino all’ultimo calcio di trasformazione dell’ultima partita – commovente, surreale: un incontro bello e inutile, dissero gli spettatori -, che poi è solo l’inizio.
Il fango e i placcaggi sempre più duri, lo spogliatoio che è una fila di ganci alle pareti, l’odore della sifcamina che intasa le narici, le docce bollenti e quel trascinarsi a casa stanchi ma felici. Claudio Fava non ha mai giocato a rugby però ne ha colto l’essenza: è uno sport che una volta sceso in campo non te ne puoi andare. Non puoi fuggire o nasconderti, non ci sono trucchi o scuse. Sei lì, devi batterti fin quando ne hai dentro e ancora un po’. Affrontare l’avversario, cioè te stesso. E lo devi fare insieme agli altri, sacrificarti per loro: passare la palla indietro per avanzare tutti insieme.
Massimo Calandri da Repubblica.it (19 marzo 2013)”