L’Iliade ci insegna che anche il più grande guerriero può vacillare di fronte agli affetti. Ma la logica spietata dell’onore lo riporta in battaglia.
L’Iliade racconta il nono anno, il penultimo, della guerra di Troia. Da tempo gli Achei cercano di conquistare la città, ma i Troiani resistono.
Fondamentale, nella cultura dell’Iliade, è il concetto di timè. La timè è l’onore, inteso come reputazione pubblica di una persona, da difendere a tutti i costi.
Vivere cercando l’altrui approvazione, lottare ogni giorno per confermare il proprio onore e per fuggire la vergogna è estremamente impegnativo, a tratti persino disumano. Mi colpisce molto come il pittore Giorgio De Chirico, nel Novecento, rappresenta spesso questi eroi: come manichini, quasi a dire che la sensibilità umana rischia di perdersi, se si è mossi solo dalla propria reputazione da difendere e dalla paura del giudizio degli altri.
È una situazione in cui tutti, prima o poi rischiamo di trovarci. Sono i momenti in cui mettiamo le aspettative degli altri prima dei nostri desideri più autentici, la carriera prima degli affetti, il successo prima del rispetto degli altri, l’autoaffermazione prima della relazione. Sono i momenti in cui ci troviamo trascinati in una corsa appassionante, nella quale schiacciamo l’acceleratore sempre di più, rendendoci conto solo troppo tardi che ci siamo allontanati da noi stessi.
È la logica perversa della guerra preventiva, ma è anche un monito per ciascuno di noi: o rinunci radicalmente alla logica dell’onore a tutti i costi e scegli la strada dell’umanità, o difenderai il tuo onore seminando odio e distruzione, in una spirale che rischia di non fermarsi più, sia che si tratti di una serie di vendette mafiose, sia che si tratti di una banale lite di condominio.
Anche Ettore e Achille, nell’Iliade, vivono così, sempre appesi all’onore e al giudizio altrui, dentro al loro ruolo di guerrieri valorosi, privi di ogni esitazione, avvolti nella loro impenetrabile corazza. Ci sono però momenti in cui questa corazza si incrina. Nella logica della timè, sono momenti pericolosi. Eppure proprio da lì emerge una bellezza sfolgorante.
In uno di questi momenti, Ettore, armato di tutto punto e pronto a tornare sul campo di battaglia, viene fermato presso le porte di Troia da sua moglie Andromaca, che lo raggiunge con il loro figlioletto Astianatte, accompagnata dalla balia.
Nel bel mezzo della guerra, si apre uno squarcio di intimità domestica. Andromaca è disperata: chiede a Ettore di non lasciarla, di non tornare a combattere. “Il tuo valore sarà la tua rovina” gli dice. Andromaca ha paura: «Sei per me padre e madre, sei per me fratello e sposo!» esclama accorata. Dà poi un consiglio al marito: difendere la città dall’interno, rafforzando i punti deboli delle mura, senza correre i rischi di uno scontro in campo aperto.
Ettore non è un insensibile, è anzi un uomo di straordinaria umanità. Nella sua risposta alla moglie emerge tutto l’affetto per lei. L’eroe prefigura la caduta di Troia, la devastazione della città, ma aggiunge che ciò che lo tormenta di più, più ancora è quello che potrebbe accadere ad Andromaca: sarebbe presa come schiava, portata in Grecia. Forse, qualcuno, vedendola svolgere le mansioni più umili, dirà: ecco Andromaca, la moglie di Ettore, il primo tra i Troiani in battaglia. Di fronte a questo tragico destino, Ettore non esita: «Voglio essere morto prima di sentire le tue urla, di sapere che ti hanno rapita».
Se rinunciasse alla battaglia, se mandasse gli altri a rischiare al suo posto, la sua timè sarebbe cancellata. Ettore non può venire meno al suo ruolo sociale. Quando la corsa appassionante è iniziata, quando le aspettative degli altri ci hanno ingabbiato, non possiamo più tirarci indietro, siamo prigionieri della nostra stessa immagine: dobbiamo vivere facendo splendere il manichino che ormai siamo di fronte al mondo; un manichino privo di vita vera, ma che tutti ammirano.
Alla fine del dialogo tra Ettore e Andromaca però accade qualcosa di sorprendente. Il manichino vacilla, la corazza si incrina, irrompe la luce. Ettore guarda suo figlio Astianatte e, in un impeto di tenerezza, gli tende le braccia. Ma il bambino non lo vede per ciò che è: vede solo l’armatura che lo ricopre. Davanti al piccolo c’è un guerriero, uno che incute timore con quel cimiero che oscilla. Astianatte dunque piange e si gira verso il petto della sua balia.
Ettore allora si toglie l’elmo e lo depone a terra, volgendosi poi di nuovo a suo figlio. I volti adesso si incontrano: non c’è più la corazza della timè, c’è l’autenticità di una relazione primordiale; non c’è più il manichino da tutti ammirato: per un magico istante c’è l’uomo, c’è il papà.
Stavolta Astianatte si lascia prendere in braccio. Ettore lo bacia, lo solleva, formula una preghiera a Zeus e agli dei: che quel suo figlio sia glorioso, che un giorno qualcuno possa dire di lui: «È molto meglio del padre».
Sono parole di una potenza inaudita: nella logica della timè Ettore deve essere sempre il migliore, deve primeggiare su tutti. Ora si augura che qualcuno, suo figlio, sia migliore di lui. Andromaca coglie la forza di quelle parole. Prende il figlio dalle braccia del marito, lo stringe a sé, piange e insieme ride.
Ma Ettore ha già ripreso l’elmo, si è già diretto al campo di battaglia. Ad Andromaca non resta che tornare a casa. Lì, insieme alle ancelle, inizia il lamento per il marito, destinato dagli inesorabili ingranaggi del Destino ad essere ucciso da Achille.
La sua città sarà distrutta, sua moglie Andromaca diverrà una schiava, ma allora Ettore sarà già morto e, come prefigurato dalle sue parole, non dovrà sopportare quel dolore. Non si compirà nemmeno ciò che Ettore desidera per suo figlio. Quando gli Achei conquisteranno la città, Astianatte sarà gettato giù dalle mura di Troia e troverà così la morte.
Marco Erba, 19 novembre 2024